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Il data scientist è maschio, donne solo 15%

La scienza dei dati è uno dei settori più in rapida crescita del mercato del lavoro, ma è ancora un campo dominato dagli uomini. Tanto che se le facoltà scientifiche nel mondo hanno raggiunto il 35% di ragazze iscritte, solo il 15% diventa una data scientist. Almeno, da quanto emerge dall’indagine di Boston Consulting Group, What’s Keeping Women Out of Data Science, condotta su più di 9.000 studenti e neo laureati di dieci Paesi (Australia, Canada, Cina, Francia, Germania, India, Giappone, Spagna, USA, Regno Unito).

Il data scientist insomma non è un mestiere per donne, ma dovrà esserlo, in quanto, “se i dati da trattare aumentano, il bacino di talenti per analizzarli si deve ampliare e per questo è fondamentale il contributo dei talenti femminili”, afferma Laura Alice Villani, Managing Director e Partner di Bcg.

Uno squilibrio che “rende monocolore un ambito come quello dell’AI”

Questo squilibrio, secondo Laura Alice Villani, “rende monocolore un ambito come quello dell’Intelligenza artificiale”, che per diventare “una risorsa preziosa per l’economia – aggiunge – è necessario sia diffusa tra la pluralità della popolazione: donne comprese”. Nel mondo ci sono però Paesi virtuosi come Australia, Francia e Spagna, dove molte donne sono impiegate nel mondo dei dati e “hanno fatto da apripista per le nuove generazioni di scienziate”, conferma la Managing Director di Bcg. Secondo l’indagine, alla base di questo fenomeno c’è una scarsa informazione, una conoscenza inesatta della materia, in quanto è un lavoro percepito troppo da nerd o troppo competitivo, riporta Ansa.

Una professione troppo competitiva

Lo dicono le donne stesse, 81 su 100 definiscono questa professione come troppo competitiva e il 48% la ritiene di scarso impatto sulla società. Secondo Bcg il 73% delle donne laureate in scienza dei dati afferma di preferire un lavoro più pratico e più utile alla società (contro il 50% degli uomini). Lo afferma anche il 67% di tutte le studenti di materie Stem (contro il 61% degli uomini), riferisce CorriereComunicazione. Le principali ragioni del gap sono quindi la percezione negativa di questa professione, la paura di una cultura basata sulla competizione più che sulla collaborazione e la scarsa informazione fornita da università e aziende sulle caratteristiche di questo lavoro.

Un trend negativo da invertire

Il trend negativo femminile, secondo Bcg, si interromperà se lo stereotipo lavorativo si adeguerà agli interessi e alle attitudini femminili. Le aziende dovranno modificare le tecniche di recruiting evitando gli hackaton e le gare di coding e abbassare in generale i toni sulla competizione favorendo invece il concetto di collaborazione. Dovrà migliorare anche la comunicazione del valore aggiunto e dell’utilità pratica del lavoro di data scientist, anche perché il 45% delle donne si dice poco informata sulle caratteristiche e finalità di questa professione.

 

Investire in tecnologia e sostenibilità. La ricetta dei manager per rilanciare la crescita

Negli ultimi cinque anni la crescita economica in Europa è scesa da un incremento del 2% all’1,4% per il 2020 e il 2021. Secondo i manager europei per invertire il rallentamento è necessario investire in tecnologia, sostenibilità, talenti e risk management. È quanto risulta da un sondaggio condotto su manager europei di realtà industriali, finanziarie e tecnologiche, e realizzato da Bdo, l’organizzazione di società indipendenti che offre servizi di consulenza professionale. In particolare, il Bdo European Survey: Ensuring a leadership position in 2025 ha raccolto le opinioni di 215 manager belgi, norvegesi, spagnoli, danesi, tedeschi, italiani, e inglesi, con l’obiettivo di evidenziare le strategie adottate dalle imprese per rispondere alle fibrillazioni del mercato.

Pianificare strategie per accrescere le quote di mercato

Dalla ricerca emergono alcune indicazioni di fondo. Sul fronte della crescita dimensionale più del 35% degli intervistati sta pianificando strategie che permettano di accrescere le rispettive quote di mercato. La crescita però è possibile se sostenuta da adeguati investimenti in tecnologie, innovazione e sviluppo, prodotto e talento, ritenuti imprescindibili per rilanciare le imprese. I ridotti tassi di crescita stimati per le economie domestiche, così come gli effetti della Brexit e il perdurare delle tensioni per la guerra commerciale Cina-Usa, spingono poi le imprese europee a cercare strategie di penetrazione nei mercati mondiali ancora più forti. Il 26% delle imprese afferma però di sentirsi poco preparato ad affrontare sfide critiche quali la sicurezza informatica, mentre stare al passo con le nuove tecnologie è una preoccupazione avvertita da un ulteriore 20%.

Come essere più competitivi?

I manager guardano poi con crescente attenzione alle politiche di sostenibilità. Le preoccupazioni ambientali sono sempre più attuali nelle agende dei cda, e la ricerca evidenzia come le aziende stiano intraprendendo azioni per accrescere la sostenibilità ambientale del proprio business. Fra le imprese italiane il 40% dichiara che la principale preoccupazione è mantenere e far crescere la profittabilità della propria impresa, mentre il 30% punta a strategie aggressive per accrescere le quote di mercato. Solo il 7% ammette di pensare a come gestire una probabile perdita di quote di mercato dovuta alla crescente competitività. Ma la ricetta per essere competitivi nei prossimi cinque anni è un mix tra la capacità di attrarre e mantenere i migliori talenti (97%), sviluppare prodotti e servizi migliori e adottare nuove soluzioni e applicazioni digitali (97%). Per il 93% la crescita per vie esterne l’M&A, presenta buone potenzialità di successo.

Le aziende italiane temono gli effetti di politiche nazionalistiche

Se il 40% degli interpellati non prevede ricadute sulla profittabilità della propria azienda per effetto di nuovi interventi normativi, il 47% degli imprenditori italiani teme gli effetti di politiche nazionalistiche all’interno dell’Ue, il 40% la concorrenza portata dai nuovi Paesi, il 30% gli effetti della Brexit, e il 53% una contrazione degli scambi con il Regno Unito, riporta Adnkronos.

In ogni caso, nei prossimi cinque anni il 43% dei manager prevede una crescita negli organici della propria azienda, contro un 53% che non vede significative variazioni.

Occupazione, i dati provvisori per il mese di novembre 2019

I dati provvisori dell’Istat relativi al mese di novembre 2019 parlano di una crescita degli occupati di 41mila unità rispetto al mese precedente, ovvero di un aumento dello 0,2%, e di un tasso di occupazione che sale al 59,4% (+0,1%). Secondo l’Istat l’andamento dell’occupazione è la sintesi di un aumento della componente femminile dello 0,3%, pari a +35 mila unità, e di una sostanziale stabilità di quella maschile. Gli occupati crescono soprattutto tra i 25-34enni e gli ultracinquantenni, mentre calano nelle altre classi d’età. Al contempo, aumentano i dipendenti permanenti (+67 mila), a fronte di una diminuzione sia dei dipendenti a termine (-4 mila) sia degli indipendenti (-22 mila).

Aumenta la percentuale di chi è in cerca di un lavoro

In crescita risultano anche le persone in cerca di lavoro (+0,5%), che risultano pari a +12 mila unità nell’ultimo mese considerato. L’andamento della disoccupazione, in questo caso, è la sintesi di un aumento per gli uomini (+1,2%, pari a +15 mila unità) e di una lieve diminuzione tra la donne (-0,2%, pari a -3 mila unità). Crescono poi i disoccupati under 35, mentre diminuiscono lievemente i 35-49enni, e risultano stabili gli ultracinquantenni. Il tasso di disoccupazione risulta comunque stabile al 9,7%. La stima complessiva degli inattivi tra i 15 e i 64 anni a novembre è in calo rispetto al mese precedente (-0,6%, pari a -72 mila unità), e la diminuzione riguarda entrambe le componenti di genere. Mentre il tasso di inattività scende al 34,0% (-0,2 punti percentuali).

Più occupazione anche a livello trimestrale

Anche nel confronto tra il trimestre settembre-novembre e quello precedente, l’occupazione risulta in crescita, seppure lieve (+0,1%, pari a +18 mila unità), con un aumento che si distribuisce tra entrambi i sessi. Nello stesso periodo aumentano sia i dipendenti a termine sia i permanenti (+62 mila nel complesso), mentre risultano in calo gli indipendenti (-0,8%, -43 mila). Inoltre, si registrano segnali positivi per i 25-34enni e per gli over 50, ma negativi nelle altre classi.

Gli andamenti mensili si confermano nel trimestre anche per le persone in cerca di occupazione, che aumentano dello 0,3% (+7 mila), e per gli inattivi tra i 15 e i 64 anni, in diminuzione dello 0,4% (-59 mila).

La crescita nell’anno è trainata dai dipendenti, ma calano gli indipendenti

Su base annua l’occupazione risulta in crescita (+1,2%, pari a +285 mila unità), l’espansione riguarda sia le donne sia gli uomini di tutte le classi d’età, tranne i 35-49enni. Tuttavia, al netto della componente demografica la variazione è positiva per tutte le classi di età. La crescita nell’anno è trainata dai dipendenti (+325 mila unità nel complesso) e in particolare dai permanenti (+283 mila), mentre calano gli indipendenti (-41 mila).

Nell’arco dei dodici mesi, l’aumento degli occupati si accompagna a un calo sia dei disoccupati (-7,1%, pari a -194 mila unità) sia degli inattivi tra i 15 e i 64 anni (-1,5%, pari a -203 mila).

Cani e gatti in vacanza, nel 2020 al primo posto per chi viaggia

Il 71% di italiani considerano i propri amici a quattro zampe come veri e propri membri della famiglia, circa 7 su 10, una cifra in linea con quella a livello globale, dove sono mediamente il 72%. Circa la metà, poi, il 51%, ammette che le vacanze sarebbero migliori se fosse possibile trascorrerle con i propri animali domestici. Un dato, quest’ultimo, che raggiunge addirittura il 59% in Italia.

Considerando questa tendenza, nel 2020 chi possiede animali li renderà sempre più una priorità, e farà di tutto per portarli con sé in vacanza. Lo ha scoperto una ricerca globale di Booking.com relativa alle scelte in fatto di viaggi e vacanze di chi possiede un animale domestico.

Scegliere la meta di una vacanza in base alla possibilità di portare il proprio animale

Per andare incontro ai bisogni dei viaggiatori che cercano il perfetto alloggio pet friendly, sarà sempre più importante per le strutture che accettano animali creare un ambiente accogliente per gli ospiti e per i loro preziosi amici pelosetti. Secondo la ricerca di Booking.com poco meno della metà, il 42%, dei padroni di animali domestici in tutto il mondo afferma infatti che potrebbe scegliere la meta di una vacanza in base alla possibilità o meno di portare con sé il proprio amico a quattro zampe. Un dato che sale al 51% tra gli italiani, ancora più affezionati ai propri pet.

Più servizi pet friendly da parte delle strutture ricettive

La metà, il 50%, dei padroni di animali domestici di tutto il mondo, e il 56% di quelli italiani, lamenta però una mancanza di informazioni chiare e di qualità sull’argomento viaggi con cani e gatti.  L’anno che viene vedrà quindi le strutture ricettive offrire servizi pet friendly per andare incontro ai bisogni di chi viaggia con animali, e una maggiore informazione su come e dove viaggiare con gli animali la seguito.

Ma quali saranno i servizi principali ricercati da chi ha un animale domestico?

I 5 servizi irrinunciabili per un viaggio a misura di pet

Il primo sevizio richiesto a livello globale da chi vuole portare con sé il proprio animale da compagnia è lo spazio per far correre e giocare gli animali (39%), seguito dalla disponibilità di assistenza veterinaria (31%), e da un benvenuto caloroso e accogliente da parte della struttura (26%).

Al quarto posto, sono ricercate attività adatte agli animali (21%), e al quinto, la disponibilità di servizi di pet sitting o pet walking (19%).

In Italia, lo spazio per far correre e giocare gli animali è scelto dal 45% degli intevistati, mentre la disponibilità di assistenza veterinaria dal 39%, e un benvenuto caloroso e accogliente dal 18%. Le attività adatte agli animali sono indicate dal 19% degli italiani, e la disponibilità di servizi di pet sitting o pet walking dal 14%.

 

Italia regina di turismo: nel 2019 record nelle strutture ricettive del Belpaese

Buone notizie sul fronte della ricettività made in Italy: nel 2018 si è battuto il record di presenze di clienti negli esercizi ricettivi italiani. Si tratta della cifra “monstre” di 428,8 milioni di presenze, + 2% sul 2017, e di 128,1 milioni di arrivi. Per quanto riguarda le località più gettonate dai turisti, Roma risulta essere la principale destinazione con circa 29 milioni di presenze, seguita da Venezia e Milano (entrambe con 12,1 milioni). I dati riferiti all’Italia turistica sono stati recentemente diffusi dall’Istat, che indica che l’Italia, con una quota del 13,6% sul totale della Ue28, è il terzo Paese in Europa per numero di presenze negli esercizi ricettivi, dopo Spagna e Francia.

Da dove arrivano i clienti stranieri?

Quali sono i principali paesi di origine dei viaggiatori che scelgono l’Italia? Gli Stati Uniti, con una crescita del 14,9% rispetto al 2017, salgono al secondo posto, dopo la Germania. I tedeschi si confermano comunque i nostri primi “clienti” con quasi 59 milioni di notti trascorse nel complesso degli esercizi ricettivi. Seguono poi quelli di Francia, Regno Unito (tutte intorno ai 6,5 punti percentuali) e quelli provenienti da Paesi Bassi, Svizzera, Liechtenstein e Austria (circa 5%).

Bene anche il turismo interno

Continua la dinamica positiva della domanda interna di turismo, con un aumento sia degli arrivi (+3,6%) sia delle presenze (+1,1%) di clienti residenti in Italia. L’incremento della clientela residente ha interessato soprattutto le presenze nelle strutture extra-alberghiere (+1,7% rispetto al 2017). Nel 2018 si stima che le vacanze rappresentino circa l’85% dei viaggi effettuati dai residenti pernottando negli esercizi ricettivi italiani (91,0% delle notti), in aumento del 13,9% rispetto all’anno precedente (+8,3% in termini di notti), consolidando il trend positivo registrato a partire dal 2016. Nel 2018 i residenti che pernottano negli esercizi ricettivi in Italia spendono in media 365 euro per viaggio e 83 euro per notte, in diminuzione rispetto al 2017 (rispettivamente -9,7% e -4,6%) attestandosi ai livelli del 2016.

Un trend positivo soprattutto per l’extraalberghiero

Rispetto all’anno precedente, i flussi turistici aumentano del 4% in termini di arrivi (quasi 5 milioni in più) e del 2,0% in termini di presenze (8,2 milioni di notti in più). Le presenze risultano in crescita per gli esercizi alberghieri (+1,6%), ma soprattutto per quelli extra-alberghieri (+2,7%); questi ultimi hanno registrato un incremento degli arrivi del 6,5%, il doppio di quello, già significativo, degli esercizi alberghieri (+3,2%). Si consolida così un trend che ha visto crescere il peso degli esercizi extraalberghieri in termini sia di arrivi (dal 19,2% del 2008 al 24,5% del 2018) sia di presenze (dal 32,6% al 34,8%).

 

Case europee sempre più smart. Google sfida Amazon per il controllo vocale

Il mercato europeo della casa smart è aumentato del 23% nel corso del 2018, e nel primo trimestre di quest’anno si conferma in salute, con una crescita del 23,9% e una quota di 21,3 milioni di dispositivi commercializzati.

La tecnologia è entrata in tutte le case, anzi, in tutte le stanze, rendendo hi-tech ciò che fino a ieri non lo era, come il lampadario o le tapparelle. Gli altoparlanti rispondono alle domande, le luci si regolano con un comando vocale, i citofoni mostrano chi sta suonando alla porta direttamente sullo schermo dello smartphone. Una tendenza partita dagli Usa e dalla Cina che ora decolla anche nel Vecchio Continente.

Il settore chiuderà il 2019 con 107 milioni di dispositivi consegnati

A fornire le cifre della svolta digitale tra le mura domestiche sono gli analisti di Idc, secondo i quali l’incremento riguarda tutte le categorie di prodotto, dai televisori ai termostati, dalle lampadine agli altoparlanti. E sempre secondo Idc il trend è destinato a consolidarsi. Il settore della smart home chiuderà infatti il 2019 con 107 milioni di dispositivi consegnati, che saliranno a 183 milioni nel 2023. Nel corso di quell’anno gli europei faranno entrare in casa 43 milioni di smart speaker, 76 milioni di tv connesse e 28 milioni di luci da accendere e spegnere senza sfiorare l’interruttore.

Il segmento degli smart speaker è quello in cui si gioca la sfida tra piattaforme rivali

Il segmento degli smart speaker è il più esiguo in termini di volumi, ma è quello in cui si gioca la sfida tra piattaforme rivali, perché è dagli altoparlanti che si controllano, attraverso la voce, gli altri elementi connessi della casa, come il condizionatore o il robot aspirapolvere. Stando ai dati Idc, in Europa da gennaio a marzo sono stati consegnati 3,35 milioni di smart speaker, con un incremento annuo del 58%.

Google sorpassa Amazon 

Quanto agli smart speaker i dispositivi Google Home hanno rappresentato il 45,1% del totale, contro il 41,8% degli Echo di Amazon. L’assistente virtuale di Google è quindi balzato in testa, anche se per gli esperti sarà la voce di Alexa, l’assistente di Amazon, a guidare il mercato nel corso del 2019. Speaker a parte, a dominare nella casa connessa è l’intrattenimento che orbita intorno al piccolo schermo. I televisori smart, riporta Ansa, insieme agli adattatori che portano internet sulle vecchie tv, registrano consegne in aumento dell’11%, a quota 12,7 milioni di unità. C’è poi la categoria che comprende luci, termostati, e i dispositivi per controllare e rendere più sicura l’abitazione, che nel complesso cresce del 20,8%.

Quanto costa il salario minimo? Le stime dell’Inapp sui costi per le imprese

Alle imprese italiane il salario minimo costerebbe 6,7 miliardi di euro. In tutto, il salario minimo legale a 9 euro lordi all’ora coinvolgerebbe infatti il 21,2% dei lavoratori dipendenti, di cui quelli del settore privato non agricolo, esclusi i lavoratori domestici, sarebbero circa 2,6 milioni. Di questi, circa 1,9 milioni, sarebbero lavoratori a tempo pieno, il 18,4% del totale dei dipendenti a tempo pieno, per un costo di 5,2 miliardi, e circa 680.000 lavoratori a tempo parziale (il 29% del totale dei dipendenti part-time), per un costo di 1,5 miliardi. Che sommati raggiungono la cifra di 6,7 miliardi di euro.

Coinvolte soprattutto le micro imprese e le piccole imprese

Si tratta delle stime sul salario minimo fornite da Paola Nicastro, direttore generale dell’Inapp, l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche, nel corso dell’audizione alla Camera dei deputati, alla quale ha partecipato anche Roberto Quaranta (Inapp e Fondazione Collegio Carlo Alberto). Secondo le stime il provvedimento riguarderebbe in modo particolare le imprese molto piccole (fino a 10 dipendenti), e piccole (fino a 50 dipendenti), in particolare nel Mezzogiorno. Limitandosi ai lavoratori a tempo pieno beneficerebbero del salario minimo il 34,1% dei dipendenti delle imprese molto piccole e il 20,3% di quelli delle imprese piccole, così come il 27% dei dipendenti nel Mezzogiorno e isole.

Simulazioni con valori inferiori a 9 euro l’ora lordi

L’incidenza del salario minimo tra i lavoratori stranieri a tempo pieno sarebbe del 32,4%, contro un 16,1% dei lavoratori italiani. Tra le dipendenti donna a tempo pieno, l’introduzione del salario minimo riguarderebbe il 23,3%, a fronte del 16,5% dei dipendenti uomini.

Nella sua audizione, l’Inapp ha fornito anche i risultati di alcune simulazioni con valori inferiori del salario minimo. Ad esempio, l’introduzione di un salario minimo legale a 8,5 euro all’ora riguarderebbe 1,9 milioni di lavoratori, cioè il 15,8% dei dipendenti del settore privato non agricolo (esclusi i lavoratori domestici), con un costo per il sistema delle imprese di 4,4 miliardi.

I costi potrebbero essere attutiti con l’introduzione di un credito di imposta

Si tratta di numeri che si ridurrebbero a 1,2 milioni di lavoratori, pari al 10,4%, con un costo di 2,7 miliardi di euro se il salario minimo legale fosse fissato a 8 euro lordi all’ora. Durante una fase transitoria i costi per le imprese, potrebbero però essere attutiti con l’introduzione di un credito di imposta, riferisce Adnkronos, calibrato sui soli dipendenti beneficiari di questa forma minima di retribuzione.

Osservatorio sulle fake news: per Agcom la criminalità è il tema clou

Criminalità, politica e medicina: sono questi gli argomenti più trattati dalle fake news, le notizie false – spesso costruite ad hoc – che viaggiano sulla rete e sui social. E il fenomeno ha raggiunto proporzioni davvero impressionati, anche se (e si spera che possa essere una buona vera notizia) la disinformazione online complessivamente prodotta in Italia nel secondo bimestre 2019 mostra un andamento pressoché costante rispetto al periodo gennaio-febbraio. A rilevarlo è il terzo numero dell’Osservatorio sulla disinformazione online pubblicato recentemente dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’Agcom.

Per le elezioni europee meno “falsi” che per le politiche del 2018

Tra i fatti più degni di nota, precisa una nota del Garante diffusa da Askanews, spicca come nel periodo subito precedente le ultime elezioni europee, l’ammontare medio di disinformazione online abbia assunto valori decisamente inferiori rispetto a quelli registrati nel periodo antecedente alle politiche del 2018. A marzo e aprile 2019, i contenuti di disinformazione si concentrano principalmente su fatti di cronaca (38,2%) che, congiuntamente a quelli di politica (11,8%) costituiscono la metà del totale. Da notare, prosegue Agcom, che sui siti di disinformazione l’incidenza degli articoli che trattano direttamente il tema delle elezioni europee ad aprile è stato di poco superiore all’1%.

Diminuiscono le “bufale” sull’immigrazione

Ancora, l’Osservatorio segnala che dall’analisi del testo di tutti gli articoli prodotti dai siti di disinformazione si evidenzia l’emergere di 4 principali tematiche, quali politica e affari di governo; cronaca nera e giudiziaria; medicina e salute; meteo. Tra i temi di rilevanza europea individuati da Eurobarometro, la disinformazione online riguarda soprattutto criminalità e disoccupazione, mentre sul totale diminuisce l’incidenza dell’immigrazione.

Criminalità il tema preferito dalla disinformazione

E’ la criminalità, però, il tema più gettonato per la costruzione delle fake news. La criminalità, che costituisce l’oggetto del 10% dei contenuti “falsi”, conclude la nota di Agcom, si conferma la tematica più trattata non solo dai siti ma anche dalle pagine/account social di disinformazione.

Gli italiani ne hanno paura

Un’ulteriore indagine, “Odio e falsità in rete”, svolta da Swg su un campione di 1.200 persone, indica invece quanto gli italiani abbiano paura di abboccare alle fake news sui social e in rete e di subire episodi di violenza verbale sul web. L’analisi afferma che il 39% degli italiani considera le fake news uno dei principali rischi dell’uso della rete (era il 26% nel 2017; +13%); seguono l’incitazione a odio e violenza (15%; +4% rispetto al 2017) e il decadimento del linguaggio (13%; +4%).

Backup dei dati: il 65% degli utenti li perde

Se il 92,7% degli utenti del mondo esegue ormai il backup dei propri computer (+24,1% rispetto allo scorso anno), oltre il 65% ha perso dati dal pc. E c’è ancora un 7% che non adotta alcun metodo di protezione delle proprie informazioni personali. Lo affermano i risultati di un sondaggio condotto dalla società tecnologica Acronis in occasione del World Backup Day, la giornata mondiale di sensibilizzazione sulla conservazione dei propri dati, che ricorre il 31 marzo. La scelta della data non è casuale. Si tratta, infatti, del giorno che precede il 1 aprile, in cui tradizionalmente si fanno scherzi più o meno pesanti. La perdita di tutti i nostri dati, però, è tutt’altro che uno scherzo, e comporta conseguenze serie e spesso anche costose.

Nel 2023 la spesa mondiale per recuperare dati ammonterà a 2.500 miliardi di dollari

Si calcola che nel 2023 la spesa mondiale per cercare di recuperare e ripristinare dati andati perduti ammonterà a ben 2.500 miliardi di dollari. Fare un backup significa creare una seconda o terza copia dei propri file (fotografie, video, email, documenti), in modo da non rischiare di perderli nel caso in cui il computer o il telefono in cui sono memorizzati si rompa, venga smarrito o rubato. Oppure che qualche hacker li rubi e chieda un riscatto per la restituzione, riporta Ansa. Il ransomware, ad esempio, è un vero e proprio sequestro: gli hacker infettano computer e smartphone, ne bloccano l’accesso o criptano i contenuti memorizzati, lasciando i dispositivi nelle mani dei proprietari, ma rendendoli di fatto inservibili.

Ogni quanto va fatto il backup

Basta poco per evitare brutte sorprese: il backup va eseguito periodicamente proprio per assicurarsi di avere sempre a disposizione una versione il più recente possibile delle nostre informazioni. Ma quando va fatto il back? Non esiste una risposta univoca, dipende sempre da quanto “riempiamo” i nostri device. “Ciò che possiamo consigliare – spiegano Francesca Romana Capizzi, Ida Galati, Nadia La Bella, Fabrizia Spinelli, quattro imprenditrici digitali di The Fashion Mob – è impostare una sveglia periodica sullo smartphone (o sul pc) che ci ricordi l’appuntamento backup”.

Memoria Usb, hard disk o cloud?

Esistono diverse soluzioni di salvataggio, e molti scelgono di affidarsi a più opzioni insieme. Esistono molti software che fanno il backup automatico del dispositivo, a pagamento o anche gratis. Se si sceglie di affidarsi ad hard disk esterni, o una memoria Usb, controllare sempre capienza e velocità di scrittura.

“Noi come gruppo abbiamo preso l’abitudine di salvare direttamente i nostri dati comuni dal principio in un cloud virtuale condiviso, come Dropbox, con il triplo vantaggio di avere tutto al sicuro, disponibile in qualsiasi momento da ogni device”, aggiungono le imprenditrici. E per chi ha perso i dati su Whatsapp esistono dei tool da scaricare su pc, come Easeus MobiSaver, Whatsapp Recovery e Dr.Fone per Android, che tentano il miracolo di recuperare quanto perduto.

 

Quanto costa un 1 giga di Internet? In Italia pochissimo

Vivere in Italia è molto conveniente. Almeno, dal punto di vista delle connessioni internet con lo smartphone. Una ricerca di Cable.co.uk, piattaforma di comparazione prezzi di operatori Tlc, ha messo a confronto più di seimila piani tariffari di 230 paesi, paragonando fra loro il prezzo medio di un giga di dati da utilizzare via mobile. E da questa mappa risulta appunto che la situazione italiana è tra le più convenienti. Noi spendiamo infatti molto meno dei tedeschi, degli inglesi, dei cinesi e degli americani. Solo gli indiani e i russi, tra i grandi paesi del mondo, spendono meno di noi.

Italia al 31° posto, con una spesa media di 1,73 dollari

Per quanto riguarda l’Italia la rilevazione di Cable.co.uk ha comparato 44 piani tariffari presenti nel mercato al 12 novembre dello scorso anno. Quello meno costoso è pari a 0,18 dollari, mentre quello più oneroso è di 11,31 dollari. La media generale ci colloca in 31a posizione, con una spesa media di 1,73 dollari, nettamente inferiore a quella di altre grandi potenze europee e mondiali.

Per quanto riguarda gli altri paesi del continente europeo, i francesi spendono 2,99 dollari, gli spagnoli 3,79 dollari, i tedeschi 6,96 dollari, e gli inglesi 6,66 dollari.

Svizzera 20,22 dollari, Usa e Canada più di 10 dollari al giga

In Svizzera invece si paga una cifra quasi venti volte superiore a quella italiana (20,22 dollari). Ma loro guadagnano più di noi e il costo della vita a Berna o Ginevra è mediamente più alto.

Guardando alle altre tariffe mondiali la tendenza generale è molto diversa da quella che viviamo in Italia. Negli Stati Uniti e in Canada si superano i 12 dollari, e anche i cinesi, costretti a districarsi tra tariffe medie che stanno di poco sotto ai 10 dollari, non se la passano meglio. Spicca poi il caso della Corea del Sud che, pur avendo una rete mobile eccezionale, registra costi quindici volte superiori all’Italia.

Sul podio, India, Kirghizistan e Kazakistan

Oltre all’India, (0,26 dollari) salgono sul podio della classifica dei meno cari anche altri due paesi asiatici, il Kirghizistan (0,27 dollari) e il Kazakistan (0,49 dollari), mentre i russi (0,91 dollari) sono al 4° posto.

Dall’altro capo della lista, riporta Agi, c’è invece lo Zimbabwe, dove un gigabye di dati mobile costa poco più di 75 dollari. Ovvero ben 289 volte di più che a Nuova Delhi o a Calcutta.