Aziende

Grandi aziende italiane, che livello ha raggiunto l’automazione dei processi?

Il 42% delle grandi aziende italiane attualmente utilizza sistemi di automazione dei processi, una percentuale che aumenta al 60% tra le imprese con più di 1.000 dipendenti. Tuttavia, solo il 15% di queste imprese ha implementato progetti di automazione intelligente dei processi, combinando tecniche tradizionali con funzioni di intelligenza artificiale. Tale percentuale cresce al 34% tra le grandissime realtà, ma scende al 10% in quelle grandi (con 250-999 addetti).

Nonostante il 61% delle grandi aziende abbia avviato progetti di Intelligenza Artificiale, la maggior parte di essi si concentra sulla costruzione di sistemi di supporto alle decisioni piuttosto che sull’automazione.

Le funzioni aziendali più coinvolte

La ricerca condotta dall’Osservatorio Intelligent Business Process Automation della School of Management del Politecnico di Milano rivela che, tra le aziende che hanno sperimentato l’Intelligent Automation, le funzioni aziendali più coinvolte sono Accounting, Finanza e Controllo, seguite da Operations, Sales e Customer Service. Solo il 15% delle grandi aziende italiane ha formalizzato il know-how per renderlo fruibile per sistemi automatici abilitati dall’IA.

La ricerca evidenzia inoltre che molte aziende stanno sperimentando progetti di AI in fase di “test”, e dunque non ancora pienamente integrati nei processi aziendali. Il Responsabile Scientifico dell’Osservatorio, Giovanni Miragliotta, sottolinea che nonostante l’automazione dei processi di business sia un tema consolidato da circa dieci anni, le recenti capacità dell’Intelligenza Artificiale portano un nuovo livello di cambiamento. Un cambiamento ostacolato però da diverse barriere, tra cui l’integrazione di dati e tecnologie, le resistenze interne e la gestione delle reazioni dei clienti.

Il valore dei finanziamenti

La ricerca ha coinvolto 501 aziende attive nell’ambito dell’automazione dei processi a livello internazionale, che hanno ricevuto finanziamenti negli ultimi 20 anni, raccogliendo complessivamente 15 miliardi di dollari. Nel periodo dal 2014 al 2020, si è registrato un incremento significativo nel numero di aziende finanziate e nel valore dei contributi, con l’82% del totale dei finanziamenti raccolto tra il 2018 e il 2022.

L’adozione della business process automation può essere categorizzata in tre livelli incrementali: task-level, business process e business process reengineering. Questi livelli offrono diverse opportunità di valore per le organizzazioni e possono essere attivati in base alle esigenze specifiche.

Le soluzioni tecnologiche per l’automazione 

L’offerta di automazione dei processi comprende soluzioni tecnologiche come la Robotic Process Automation (RPA), con un’evoluzione verso funzionalità abilitate dall’Intelligenza Artificiale e dalla generative AI. L’importanza delle soluzioni di process intelligence, come task mining e process mining, è in crescita, anche se l’80% delle aziende che hanno automatizzato alcuni processi non ha utilizzato tali tecnologie.

Infine, l’Intelligenza Artificiale trova applicazione in diverse fasi di gestione e automazione dei processi aziendali, comprese categorie come business process management, sviluppo e funzionamento dell’automazione, interazione con l’automazione, automazione del processo e orchestrazione di più processi. Tuttavia, l’adozione di queste tecnologie è ancora in fase di sviluppo e la consapevolezza delle aziende riguardo alle opportunità offerte dall’IA è in continua crescita.

Minacce digitali: attacchi tramite e-mail +222% nel secondo semestre 2023 

Nella seconda metà del 2023 il phishing potenziato dall’AI ha colpito oltre il 90% delle organizzazioni, contribuendo in modo netto all’incremento del 222% degli attacchi sferrati via e-mail.
Emerge dal report globale di Acronis sulle minacce digitali, dal titolo ‘Incessante aumento degli attacchi informatici: PMI e MSP nel mirino’, relativo al secondo semestre 2023.

Il report conferma la tendenza alla diminuzione delle varianti e del numero di nuovi gruppi di ransomware, ma le famiglie più diffuse di questo vettore continuano a causare perdite di dati, e denaro, alle aziende di tutto il mondo. Inoltre, il report anticipa un’intensificazione degli attacchi con tattiche avanzate, come quelli alla supply chain, basati sull’AI e le incursioni sponsorizzate da Stati nazione.

Singapore, Spagna e Brasile i più colpiti dagli attacchi malware

Gli MSP devono prepararsi a far fronte a minacce specifiche per le loro attività. Tra queste, la strategia di ‘island hopping’, in cui gli aggressori sfruttano l’infrastruttura di un MSP per attaccare i clienti, o lo stuffing delle credenziali, con cui viene sfruttato l’ampio accesso ai sistemi di cui dispone un MSP.

Nell’ultimo trimestre 2023, i paesi più colpiti dagli attacchi malware (ogni malware circola in media 2,1 giorni prima di scomparire) sono stati Singapore, Spagna e Brasile.
Nello stesso periodo, Acronis ha bloccato quasi 28 milioni di URL sugli endpoint (- 36% rispetto al quarto trimestre 2022) e ha reso pubblici 1.353 casi di ransomware.

Il ransomware minaccia PA e medie/grandi imprese

Aumenta l’impiego di sistemi di AI generativa per avviare attacchi informatici e creare contenuti dannosi. WormGPT, FraudGPT, DarkBERT, DarkBART e ChaosGPT sono alcuni tra gli strumenti più utilizzati dagli hacker.
Ma è il ransomware la principale minaccia per le medie e grandi imprese, colpendo settori strategici come la PA e la sanità, mentre i furti di dati sono la seconda minaccia più diffusa.

I gruppi specializzati in ransomware più attivi nel 2023 includono invece LockBit, Cl0P, BlackCat/ALPHV, Play e 8Base.
Il provider italiano di servizi cloud Westpole per la PA ha subito un importante attacco che ha messo in crisi servizi per 1.300 amministrazioni pubbliche, tra cui 540 comuni. L’attacco, attribuito a LockBit 3.0, ha portato a operazioni manuali in diversi comuni, con ripercussioni sui pagamenti degli stipendi.

Non cessano gli attacchi agli MSP

Mentre l’agenzia italiana per la sicurezza informatica ha recuperato i dati di oltre 700 enti, il ripristino delle restanti 1.000 amministrazioni pubbliche rimane in difficoltà, sollevando preoccupazioni circa la capacità di Westpole di recuperare completamente i dati e adempiere agli obblighi nei confronti delle PA colpite.

Non cessano poi gli attacchi agli MSP, come la recente violazione di alto profilo che ha interessato numerose agenzie governative degli USA. Le vulnerabilità degli account di posta elettronica nel cloud di Microsoft, ad esempio, hanno causato la violazione di 60.000 e-mail appartenenti a 10 account del Dipartimento di Stato USA.

Lavoro, è allarme burnout 

I dati sulla diffusione del burnout all’interno delle aziende sono sconcertanti: globalmente, circa il 20% dei dipendenti ne sperimenta i sintomi. la situazione è tale che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente riconosciuto il burnout come una condizione medica collegata allo stress cronico non gestito adeguatamente sul luogo di lavoro, includendolo nella classificazione internazionale delle malattie.

Il fenomeno, inoltre, colpisce in modo più significativo i lavoratori delle aziende più piccole, quelli senza posizioni manageriali e i giovani.

Impatto maggiore sui giovani 

In particolare, l’80% dei dipendenti appartenenti alle generazioni Z e Millennial sarebbe disposto a lasciare il lavoro a causa di una cultura aziendale tossica. La necessità di prestare attenzione ai processi di ascolto dei dipendenti è stata evidenziata da Francesca Verderio, leader delle pratiche di formazione e sviluppo di Zeta Service, un’azienda italiana specializzata in servizi HR e payroll.

Le cause del burnout: conflitti e stress

Conflitti interpersonali, mancanza di chiarezza su compiti, responsabilità e obiettivi, pressioni legate alle tempistiche e al carico di lavoro possono portare a confusione, stress e bassa produttività, contribuendo al burnout. La necessità di un’adeguata gestione dello stress sul lavoro è chiaramente indicata dall’OMS.

Cosa succede a livello globale?

Un recente sondaggio condotto dal McKinsey Health Institute su 30.000 dipendenti in 30 paesi evidenzia che il 22% dei lavoratori a livello globale sperimenta sintomi di burnout, con variazioni significative tra le nazioni. L’India registra il 59%, mentre il Camerun segna il 9%. L’Italia si posiziona nella parte bassa della classifica, con solo il 16% dei sintomi di burnout, nonostante manifesti un’elevata percentuale di stanchezza fisica e mentale (43%).

Il prezzo economico del burnout

Le dimissioni dei giovani rappresentano oggi una sfida per il 60% dei talent manager. Si tratta di un ostacolo all’introduzione di nuove competenze e alla crescita delle imprese. Il calo della soddisfazione lavorativa, registrato dal 2020, potrebbe causare una perdita di circa 8,8 trilioni di dollari in produttività a livello globale, riferisce Cnbc.

Un clima aziendale positivo è necessario per stare bene 

Un ambiente di lavoro positivo consente ai dipendenti di sperimentare un maggiore benessere e di essere più performanti. E’ inoltre correlato a una maggiore soddisfazione lavorativa, coinvolgimento, collaborazione e produttività. Un sondaggio PwC evidenzia che il miglioramento del benessere dei dipendenti potrebbe contribuire economicamente, ad esempio nel Regno Unito, con un valore compreso tra 130 e 370 miliardi di sterline all’anno.

A dicembre 2023 in aumento fiducia di imprese e consumatori 

È in atto un diffuso miglioramento delle opinioni dei consumatori, soprattutto sulla situazione economica generale e sulla situazione futura.
L’evoluzione positiva è evidenziata dai quattro indicatori calcolati mensilmente dall’Istat a partire dalle stesse componenti del clima di fiducia.

A dicembre 2023 il clima economico e quello futuro registrano gli incrementi più consistenti, il primo passa infatti da 111,0 a 118,6 e il secondo da 109,3 a 113,5, il clima corrente aumenta da 99,8 a 102,2 e il clima personale sale da 101,2 a 102,8.
Per l’ultimo mese dell’anno l’Istat stima in generale un aumento sia del clima di fiducia dei consumatori, il cui indice in media cresce da 103,6 a 106,7, sia dell’indicatore composito del clima di fiducia delle imprese, che sale da 103,5 a 107,2.

Cresce la fiducia in tutti i comparti, tranne la manifattura

Con riferimento alle imprese, l’Istat segnala un miglioramento della fiducia, seppur con intensità diverse, in tutti i comparti a eccezione della manifattura. Più in dettaglio, nei servizi di mercato si registra un marcato aumento, con l’indice che passa da 96,7 a 106,4, nelle costruzioni e nel commercio al dettaglio l’incremento è più contenuto (l’indice cresce, rispettivamente, da 161,3 a 162,9 e da 107,5 a 107,8), mentre si stima un peggioramento della fiducia nella manifattura: qui l’indice diminuisce da 96,6 a 95,4.

Quanto alle componenti degli indici di fiducia, nella manifattura giudizi sugli ordini e sulle scorte di prodotti finiti risultano sostanzialmente stabili rispetto al mese scorso, ma si abbinano ad attese di produzione in deciso peggioramento.
Indici di sfiducia: attese di produzione in deciso peggioramento per il manifatturiero

Commercio al dettaglio: nella GDO giudizi sulle vendite positivi, attese in diminuzione

Nelle costruzioni invece si stima un miglioramento di tutte le componenti, mentre nei servizi di mercato si evidenzia un deciso miglioramento dei giudizi sugli ordini e sull’andamento degli affari. Anche le attese sugli ordini aumentano, ma l’incremento del saldo è meno consistente rispetto ai giudizi.

Con riferimento al commercio al dettaglio, l’Istat stima una dinamica estremamente positiva per i giudizi sulle vendite, mentre le relative attese sono in diminuzione.
Tale evoluzione, secondo l’Istat è determinata dalla grande distribuzione, mentre nella distribuzione tradizionale opinioni negative sulle vendite si uniscono a un aumento delle relative attese. Quanto alle scorte di prodotti finiti, sono giudicate in decumulo.

“Generale miglioramento di tutte le variabili che compongono l’indicatore”

“A dicembre, il clima di fiducia delle imprese torna ad aumentare dopo quattro mesi consecutivi di riduzione e raggiunge il livello più elevato dallo scorso luglio – segnala l’Istituto, come riferisce Il Sole 24 Ore -. L’aumento dell’indice è determinato dal comparto dei servizi e da quello delle costruzioni. L’indice di fiducia dei consumatori aumenta per il secondo mese consecutivo e si riporta, anch’esso, sul livello di luglio 2023. Si segnala un generale miglioramento di tutte le variabili che compongono l’indicatore a eccezione dei giudizi sull’opportunità di risparmiare nella fase attuale, che rimangono sostanzialmente stabili rispetto al mese scorso”.

Banche etiche versus banche convenzionali: investire green è più redditizio

Secondo uno studio condotto da Fondazione Finanza Etica, Fundación Finanzas Éticas e Federazione Europea delle Banche Etiche e Alternative (Febea) le banche etiche europee mostrano una redditività superiore rispetto alle banche convenzionali.
In particolare, durante un arco temporale di 10 anni (2012-2021) la redditività del capitale proprio (ROE) delle banche etiche è risultata in media del 5,23%, rispetto al 2,21% delle banche convenzionali.

Anche la redditività degli attivi (ROA) è risultata più elevata, con una media dello 0,46% contro lo 0,25% delle banche convenzionali.
Insomma, grazie a un modello di business eticamente orientato la finanza etica si propone di influenzare positivamente il sistema finanziario mainstream globale. Le performance delle banche etiche mostrano che è possibile vincere le sfide economiche, sociali e ambientali, senza rinunciare a redditività, adeguatezza patrimoniale e performance finanziaria.

No a finanziamenti a filiere dannose per la società e l’ambiente

Le banche etiche mantengono nel tempo una forte capitalizzazione nel tempo, con un rapporto tra patrimonio netto e passività totali che si attesta in media all’8,2%, e presentano differenze strutturali rispetto alle banche convenzionali, focalizzandosi maggiormente sulle attività bancarie tradizionali, soprattutto sul credito.

Inoltre, le banche etiche mostrano un impegno concreto nell’approccio ecologico e sociale, investendo in metriche avanzate per misurare le emissioni di gas serra e adottando politiche che escludono finanziamenti a filiere dannose per l’ambiente e il clima.
Il rapporto sembra quindi sottolineare il successo e l’efficacia del modello di finanza etica nell’affrontare le sfide contemporanee e propone una visione positiva sul suo impatto potenziale nel sistema finanziario globale.

Prestiti più sostenibili e responsabili

Le differenze tra banche etiche e banche convenzionali non sono solo in termini di redditività, ma anche in relazione alla gestione della liquidità e alla solidità patrimoniale.
La prudenza nella gestione della liquidità sembra essere un elemento distintivo delle banche etiche rispetto alle loro controparti convenzionali.
Nei confronti delle banche etiche, la principale fonte di liquidità è rappresentata dai depositi dei clienti, contribuendo all’81,1% delle passività totali.

Al contrario, le banche convenzionali dipendono da diverse fonti di liquidità, il che si traduce in un rapporto depositi/patrimonio netto inferiore rispetto alle banche etiche.
Quanto al rapporto prestiti/depositi (LDR), nelle banche etiche si mantiene stabile e inferiore (tra 77%-81,5% vs 86%-102,5%), che riflette appunto una gestione più prudente della liquidità e una focalizzazione sull’erogazione di prestiti in modo sostenibile e responsabile.

Un approccio olistico e integrato

Le banche convenzionali europee sembrano non aver intrapreso una vera transizione ecologica nel loro modello di business.
Sebbene offrano singoli prodotti ‘verdi’ sono accusate di rimanere orientate al massimo profitto. Si evidenzia che dal 2016 al 2022, queste banche hanno finanziato i combustibili fossili con oltre 5 miliardi di euro, mentre solo il 7% dei loro finanziamenti energetici è stato destinato alle energie rinnovabili.

Le banche etiche, al contrario, adottano un approccio olistico e integrato, e si distinguono per il loro impegno a non finanziare l’industria bellica.

Lavoro, flessibilità è la parola chiave 

Littler, il più grande studio di diritto del lavoro, ha recentemente pubblicato il suo sesto rapporto annuale, l’European Employer Survey Report. Dopo aver coinvolto quasi 800 HR manager e imprenditori in tutta Europa, il sondaggio rivela le soluzioni adottate dai datori di lavoro di fronte ai cambiamenti culturali nella gestione del rapporto di lavoro. Quale strategia chiave emerge con evidenza? La flessibilità innanzitutto.

Lavoro ibrido, una tendenza destinata a durare  

Dopo anni di sconvolgimenti e incertezze, i luoghi di lavoro in tutta Europa stanno definendo un nuovo modo di operare, con modelli flessibili e ibridi destinati a durare anche nel futuro. Nel 2023, il 30% dei datori di lavoro sceglie il lavoro completamente in presenza, mentre la maggioranza (il 58%) adotta modelli ibridi che consentono una parziale presenza in ufficio. Questo trend rimane simile all’indagine del 2022, indicando una stabilizzazione delle nuove modalità di lavoro.

Italia in transizione e differenze con gli altri Paesi

In Italia, il 33% dei datori di lavoro richiede ai dipendenti di essere completamente in ufficio nel 2023, rispetto al 52% dell’anno precedente. Il 44% ora offre modelli ibridi, riflettendo un allineamento alle preferenze dei dipendenti verso una maggiore flessibilità e un corretto life-work balance.
E nel resto del Vecchio Continente? La Germania spicca nell’analisi con solo il 22% delle aziende che impone il ritorno in ufficio. L’Italia mostra un atteggiamento aperto all’innovazione, con il 76% che utilizza l’IA predittiva e il 78% quella generativa, superando Francia e Germania.

Sfide legali, operative e pratiche 

Quasi la metà degli intervistati (48%) permette ai dipendenti di lavorare da remoto anche dall’estero, mentre il 38% considera una settimana lavorativa di quattro giorni. Queste scelte, sebbene innovative, portano con sé notevoli sfide legali, operative e pratiche. Mentre il 61% degli intervistati dichiara di utilizzare strumenti di AI predittiva nell’HR, il 39% evita ancora di farlo. In Italia, il 76% utilizza l’AI predittiva, evidenziando un approccio aperto rispetto a Francia e Germania.
Inoltre il 75% dei datori di lavoro trova impegnativo gestire le aspettative relative alle questioni sociali e culturali poste dai dipendenti. Le questioni legali sul luogo di lavoro sono una preoccupazione chiave per il 64% degli intervistati, con l’Italia al 70%.

Gli altri temi “caldi” 

Il rapporto approfondisce anche temi cruciali come la salute mentale, le direttive Ue sulla trasparenza delle retribuzioni, la protezione dei whistleblower e le iniziative ambientali, sociali e di governance (ESG). Presentato durante la Littler 2023 European Executive Employer Conference ad Amsterdam, il rapporto offre un’analisi dettagliata delle tendenze europee.

L’e-commerce spinge i negozi di vicinato a reinventarsi

La crescita dell’e-commerce in Italia, con una penetrazione che si attesta intorno al 12%, non è un fenomeno isolato rispetto alla perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali. Al contrario, il commercio online ha incentivato i negozi tradizionali a sfruttare nuovi canali per rinnovarsi. Questo è il risultato di uno studio condotto dalla Fondazione De Gasperi, con il supporto di Amazon, presentato a Roma. Secondo la ricerca, il 71% dei consumatori ritiene che i negozi di vicinato che hanno abbracciato l’e-commerce abbiano migliorato la qualità e la quantità dei servizi offerti ai clienti grazie alla presenza di siti di vendita online. Inoltre, il 60% dei clienti apprezza di poter utilizzare i propri negozi di fiducia come punti di ritiro per gli acquisti online.

La rivoluzione nel settore del commercio

L’e-commerce sta trasformando il panorama commerciale in Italia, influenzando il modo in cui le aziende operano e come i consumatori effettuano i propri acquisti. Molte aziende stanno adottando strategie multicanale, combinando le vendite fisiche e digitali. 

La ricerca dimostra che le dinamiche occupazionali, in contrasto con le aspettative, non confermano un legame causale tra l’e-commerce e la perdita di posti di lavoro nei settori tradizionali. Negli ultimi 10 anni, fino all’arrivo della pandemia, il settore del commercio ha sperimentato una crescita, in coincidenza con la diffusione dell’e-commerce.

Un’opportunità e non una minaccia

L’e-commerce non è di per sé una minaccia, ma può rappresentare un’opportunità per le imprese. La ricerca mette in luce come l’occupazione nelle piccole e medie imprese segua dinamiche locali più che nazionali. L’aumento dell’1% della popolazione in un’area si traduce in un incremento dell’1,2% nell’occupazione nel settore commerciale. Nonostante il commercio elettronico rappresenti circa il 12% delle vendite totali, il commercio tradizionale continua a dominare il mercato, costituendo circa il 90% degli acquisti del settore.

Sostenibilità e impatto ambientale

L’e-commerce offre opportunità di ottimizzare i processi di distribuzione, riducendo il numero di clienti in circolazione e gli spostamenti inutili, contribuendo così a ridurre l’impatto ambientale e a migliorare la sostenibilità del settore commerciale.

Un trampolino di lancio per le imprese italiane

L’e-commerce rappresenta un trampolino di lancio per molte imprese italiane, soprattutto per le più piccole. È importante sfatare gli stereotipi che circondano l’e-commerce e riconoscerlo come un’opportunità di crescita. Può aprire nuovi mercati e favorire l’export dei prodotti italiani all’estero.

In conclusione, il commercio sta evolvendo inevitabilmente, ma è necessario unire le forze, pubbliche e private, per affrontare le sfide e sostenere lo sviluppo del settore, valorizzando il tessuto delle piccole e medie imprese italiane.

Mercato bio italiano: crescono superfici coltivate, vendite, export

L’Italia, con oltre 2,3 milioni di ettari e la più alta percentuale di superfici bio sul totale (19% contro una media europea ferma al 12%), è ormai vicina target del 25% di superfici investite a bio, previsto dalla Strategia Farm to Fork per il 2030. Positive poi anche le performance del mercato interno, grazie al traino dei consumi fuori casa (ristorazione commerciale e collettiva) e a una ripresa a valore dei consumi domestici, nonché le vendite all’estero. Sono alcuni dati rilevati dalla ricerca Nomisma presentata in occasione della prima giornata di Rivoluzione Bio 2023, gli Stati generali del biologico, organizzati in collaborazione con FederBio e AssoBio, realizzati con Nomisma, nel quadro del progetto cofinanziato dall’Ue BEING ORGANIC IN EU.

Le dimensioni del mercato interno

Nel 2022 le vendite alimentari bio nel mercato interno (consumi domestici e consumi fuori casa) hanno superato 5 miliardi di euro, il 4% delle vendite al dettaglio biologiche mondiali.
A trainare la crescita anche quest’anno i consumi fuori casa, che sfiorano 1,3 miliardi di euro (+18% sul 2022). Fondamentale però è la ripresa dei consumi domestici, che, dopo la leggera flessione del 2022 (-0,8% a valore rispetto al 2021), registrano una variazione del +7%. La crescita è da collegare soprattutto alla spinta inflazionistica dell’ultimo anno, confermata dal calo dei volumi in Grande Distribuzione (-3% le confezioni di prodotti bio vendute rispetto allo stesso periodo del 2022).

Export: +8%

Positiva anche quest’anno poi la performance dell’export di prodotti agroalimentari italiani bio, che raggiunge i 3,6 miliardi di euro nel 2023, segnando una crescita del +8% (anno terminante luglio) rispetto all’anno precedente. Nonostante si registri una crescita più contenuta rispetto allo scorso anno, comunque in linea con l’export agroalimentare nel complesso, il riconoscimento per il bio Made in Italy sui mercati internazionali risulta rafforzato dall’evoluzione di lungo periodo (+189% rispetto al 2013) e dal crescente ruolo del bio sul paniere dei prodotti Made in Italy esportati: il peso nel 2023 ha raggiunto oggi il 6% a fronte del 4% registrato dieci anni fa.

I prodotti si scelgono principalmente in base all’origine

Chi acquista bio sceglie principalmente in base all’origine: il 29% seleziona prodotti bio 100% italiani, un ulteriore 17% quelli di origine locale/km 0 e l’11% cerca l’ulteriore presenza del marchio DOP/IGP. Anche la marca gioca da sempre un ruolo fondamentale nella scelta dei prodotti bio da mettere nel carrello: l’8% preferisce la marca industriale e il 7% la marca del supermercato.
Ma perché il consumatore acquista prodotti bio? Innanzitutto perché li ritiene più sicuri per la salute rispetto a un prodotto convenzionale (27%), ma anche perché sono sostenibili. Il 23% li ritiene più rispettosi dell’ambiente, il 10% del benessere animale e un ulteriore 10% fa riferimento alla sostenibilità sociale e intende sostenere i piccoli produttori.

Pmi: l’export tra transizione sostenibile e digitale

Le oltre 200mila piccole e medie imprese italiane producono un giro di affari di oltre 1.000 miliardi di euro, generando quasi il 40% del Valore Aggiunto nazionale, e impiegano 5,4 milioni di lavoratori. Un terzo di tutti gli occupati della penisola. Attualmente le Pmi italiane realizzano all’estero circa un terzo del proprio fatturato e contribuiscono al 48% dell’export nazionale, rispetto al 20% delle tedesche e francesi, e al 34% delle spagnole.
Un trend che si rafforza anche in prospettiva: secondo le previsioni elaborate dall’Ufficio Studi di SACE, le esportazioni delle Pmi italiane sono attese crescere del 6,2% nel 2023, con una prospettiva del 4% nel 2024 e del 3,2% nel biennio 2025/2026, quando supereranno i 300 miliardi di euro.

L’Oriente guida la crescita delle esportazioni

Emerge da uno studio realizzato da SACE in collaborazione con The European House – Ambrosetti, dal titolo ‘Piccole, medie e più competitive: le Pmi italiane alla prova dell’export tra transizione sostenibile e digitale’. Con riferimento ai mercati di destinazione, a guidare la crescita dell’export delle Pmi italiane quest’anno sarà l’Oriente.
Medio Oriente, Asia orientale e centrale sono le aree per cui si prevedono infatti i maggiori incrementi, a fronte di tassi inferiori per l’Europa (+5,5%) e per l’America settentrionale (+6,6%), che rimangono comunque in valore assoluto le principali geografie di sbocco. Nel 2024 un maggiore dinamismo si rileverà in Africa subsahariana (+5,6%), America centro-meridionale (+5,4%) e America settentrionale (+5,1%).

Al centro delle catene globali del valore 

Di fatto, le Pmi sono al centro delle catene globali del valore e dei numerosi distretti industriali, elemento fondamentale della diffusione e affermazione del Made in Italy nel mondo, con un ruolo di ‘connettore sociale’ e attore chiave nei processi di transizione verso un mondo più sostenibile, digitale e interdipendente.
Da sempre le Pmi offrono un contributo rilevante per lo sviluppo economico, tecnologico e sociale del Paese. Nonostante alcuni segnali di attenzione emersi nel corso del primo trimestre 2023, possono contare su una struttura finanziaria rafforzata negli ultimi anni, e su livelli di debito relativamente contenuti che permettono di mitigare, almeno in parte, l’esposizione agli effetti avversi legati al peggioramento delle condizioni creditizie.

La Twin Transition aumenta la propensione a esportare 

Transizione sostenibile e rivoluzione digitale sono i due fenomeni che stanno caratterizzando in modo sempre più nitido e marcato l’attività di impresa. Nel 2022, oltre il 60% delle medie imprese manifatturiere (e quasi il 40% delle piccole) ha infatti intrapreso azioni di sostenibilità, mostrando un’attenzione crescente per questi temi. La cosiddetta Duplice Transizione (Twin Transition) aumenta poi la propensione all’export delle Pmi, tanto che il numero delle imprese che investe in green e digitale ed esporta è superiore del 20% rispetto a quello delle imprese che esportano non facendo alcuna transizione. Abbracciare la Duplice Transizione green e digitale porta quindi le Pmi a essere più resilienti, lungimiranti e consapevoli. Ma soprattutto più produttive e competitive non solo in ambito nazionale, ma anche internazionale. 

Generazione Z e Alpha, come cambieranno i viaggi d’affari?

I più giovani della Gen Z e della Gen Alpha stanno per entrare sul mercato del lavoro ed entro il 2030 saranno le fascia di popolazione predominante. Per questo motivo SAP Concur, riferimento nel settore delle soluzioni di gestione dei viaggi aziendali, ha pubblicato un documento intitolato “Prepararsi per la Gen Z e la Gen Alpha: come le generazioni più giovani cambieranno i viaggi d’affari e la gestione delle spese” per aiutare i travel manager e i leader aziendali a capire come le operazioni di viaggio e spese dovranno essere adattate in futuro.

Tecnologia e personalizzazione i concetti chiave

In questa fase, le imprese dovranno essere pronte ad aprirsi ai nuovi standard. La tecnologia, la personalizzazione e la sostenibilità saranno i concetti chiave. La velocità della rete, il passaggio al digitale e gli smartphone influenzeranno le aspettative dei lavoratori. Come rivela il report, le aziende devono essere all’avanguardia e al passo con un mondo digitale in continua evoluzione e dal ritmo incalzante, per garantire la fidelizzazione dei dipendenti e rimanere al contempo produttive e redditizie. La velocità di internet e l’utilizzo di smartphone e applicazioni mobili influiscono sulle preferenze di comunicazione sia dei lavoratori di oggi sia del futuro. Secondo una ricerca commissionata da LivePerson, il 65% degli intervistati della Gen Z preferisce comunicare digitalmente piuttosto che di persona; ciò ha portato a contatti più brevi, frequenti e diretti tra i dipendenti.

La sostenibilità si conferma una priorità 

Con l’arrivo in azienda della Gen Z, crescerà anche l’esigenza di trattamenti personalizzati da parte del datore di lavoro. Dall’altra parte, i nuovi arrivati daranno priorità alla sostenibilità. Nel 2022, il 100% degli intervistati di questa generazione dichiarerà di voler ridurre il proprio impatto ambientale durante i viaggi per affari nel 2020. Perciò, le aziende devono investire in tecnologia avanzata ed obiettivi misurabili sul fronte verde per trattenere ed attirare talentuosi dipendenti. Secondo Gabriele Indrieri, VP e Managing Director di SAP Concur EMEA South: “Le aziende devono adottare le tecnologie più recenti e stabilire obiettivi di sostenibilità misurabili per attrarre e trattenere i talenti. Per questo motivo, i leader del settore T&E dovrebbero iniziare a discutere con i loro partner operativi, con la direzione dell’ufficio e con gli altri dirigenti dell’azienda per fare il punto sulla situazione e su come tali operazioni potrebbero dover cambiare in futuro”.