Doccia senza porte: una interessante idea per il tuo bagno

Conosci la doccia senza porte, chiamate anche “Walk In“?

Si tratta di una soluzione che da qualche tempo va di gran moda anche in Italia, certamente qualcosa in grado di creare un effetto di piacevole stupore sull’osservatore e che infonde al tempo stesso all’intero ambiente una netta percezione di design e ricercatezza.

Vediamo di capire innanzitutto cosa sia una doccia senza porte e perché oggi siano così tante le persone a desiderare questo tipo di soluzione per il proprio bagno.

Cosa è una doccia senza porte?

Una doccia senza porte è sostanzialmente una doccia in cui è presente soltanto un profilo di vetro, il cui scopo è quello di evitare che gli schizzi d’acqua vadano sul pavimento.

Tale profilo di vetro è posizionato in genere proprio di fronte il soffione della doccia, per intercettare le goccioline d’acqua.

Per il resto non ci sono porte o altre chiusure, dunque l’accesso è particolarmente facile dato che si tratta di una doccia che a tutti gli effetti dà la sensazione di rimanere “aperta”.

Un’altra delle particolarità delle docce senza porte è che in genere si preferisce evitare di installare qualsiasi tipo di piatto doccia ma al contrario si opta per un filo pavimento, soluzione questa in grado di apportare un ulteriore contributo in termini di eleganza.

Parliamo dunque di una doccia che al momento va sicuramente di tendenza e che è possibile trovare anche nelle strutture ricettive di lusso.

I vantaggi di una doccia “Walk In”

Approfondito dunque ogni aspetto pratico delle doccia senza porte, vediamo allora di seguito quelli che potrebbero essere alcuni dei vantaggi nel far installare questo particolare tipo di box doccia.

  • Costi di manutenzione più bassi: come accennato, nelle docce senza porte vi sono certamente meno elementi rispetto una doccia tradizionale. Non ci sono porte, binari e profili scorrevoli. Ciò significa che ci sono un minor numero di pezzi che si possono guastare e dunque una minore necessità di manutenzione nel corso del tempo.
  • Pulizia più semplice: minor numero di pareti in vetro significa autonomamente minor numero di superfici da pulire. Questo è un vantaggio non di poco conto, considerando che in genere i pannelli della doccia si riempiono di goccioline al termine dell’utilizzo. Doverne pulire soltanto uno anziché tre o quattro è davvero un bel vantaggio.
  • Tempi di installazione più rapidi: proprio in virtù del fatto che non c’è un piatto doccia e non ci sono binari e soluzioni scorrevoli da installare, l’installazione di una doccia senza porte è particolarmente veloce. Questo significa che se opterai ad esempio per il servizio di sostituzione della vasca con una doccia probabilmente gli operai riusciranno a fare tutto in un’unica giornata.
  • Costi d’acquisto inferiori: proprio in virtù del fatto che vi sono meno elementi da installare, il costo di una doccia aperta è mediamente più basso rispetto a quello di un normale box doccia. Tra l’altro anche le operazioni di posa sono più veloci e dunque la manodopera necessaria è minore.

Una installazione a regola d’arte infine, assicurerà la non fuoriuscita di goccioline d’acqua durante la doccia. Per questo motivo è molto importante che il team che si occuperà dell’installazione della tua doccia Walk In abbia la giusta esperienza circa questo tipo di soluzione e che non ci siano dunque difetti di alcun tipo nella messa in opera.

L’effetto finale è garantito e vedrai per questo che i tuoi ospiti rimarranno piacevolmente sorpresi da questa interessante novità.

A te invece andranno tutti i vantaggi del poter godere dei benefici, sia a livello estetico che di benessere, che una doccia di questo tipo è in grado di regalare.

Inflazione e aumento dei prezzi cambiano modalità e abitudini di spesa

L’aumento dei prezzi è dovuto a molteplici fattori, ma il conflitto in corso e l’incremento dei costi dell’energia sono ritenute le cause principali, e il consumatore è il soggetto più penalizzato.
Nonostante la maggior parte degli italiani dichiara di non intravedere, nei prossimi 12 mesi, una modifica sostanziale della propria situazione economica, la preoccupazione per l’inflazione in Italia nel 2022 è elevata. L’Osservatorio inflazione di Ipsos, giunto alla sua terza rilevazione nel corso del 2022, racconta un progressivo cambiamento nelle modalità e abitudini di spesa degli italiani, che devono fare i conti con una condizione economica personale non soddisfacente, dichiarata da oltre un individuo su 2.

Le strategie di riduzione dei consumi

Il 67% di coloro che sono insoddisfatti della propria condizione economica è preoccupato di non riuscire a fare quadrare i conti a fine mese (+10% rispetto a maggio). Questa amplifica l’attenzione all’oggi e alla quotidianità, distogliendo lo sguardo da un futuro che appare sempre più incerto e imprevedibile. I consumatori hanno registrato un aumento dei prezzi che nel corso del tempo si è esteso a un numero sempre maggiore di categorie di prodotti e servizi. Le categorie dove i consumatori hanno riscontrato i maggiori rincari sono soprattutto le utenze energia-gas (87%), l’alimentare (86%), i carburanti (85%), i ristoranti-pizzerie (72%) e i bar-pub-locali (62%).

Più discount e acquisti online

Nonostante gli aumenti dei prezzi, alcune categorie appaiono meno coinvolte di altre nella riduzione dei consumi (alimentari, cura della casa, della persona, telefonia) mentre per altre i consumatori dichiarano di voler contenere la spesa e ridurne l’utilizzo. In particolare, oltre il 70% dei clienti di ristoranti e bar ne ridurrà la frequentazione. Tutte le categorie saranno comunque oggetto di strategie volte al contenimento della spesa. In generale, prima di cercare di ridurre i consumi, si cercano promozioni che possono riguardare sia prodotti abituali sia nuovi acquisti. La ricerca del prezzo più conveniente genera una maggior frequentazione di discount e mercati rionali, oppure, un maggior utilizzo dei canali online e l’acquisto di marche meno costose. Per i beni durevoli si posticipa la spesa, e quando possibile, si ipotizza la rinuncia all’acquisto.

Il fenomeno della shrinkflation

Il costante aumento dei prezzi porta il consumatore a fare sempre più confronti e a essere più attento a cosa acquista. In particolare, è attento a confrontare il prezzo pagato per la quantità ottenuta. In questo modo si rende conto che è sempre più diffuso il fenomeno della shrinkflation, ossia la pratica di ridurre il packaging e il contenuto dei prodotti, ma senza una relativa diminuzione di prezzo. I dati della terza rilevazione dell’Osservatorio rivelano che oltre 2 consumatori su 3 (68%) preferirebbero avere una quantità invariata di prodotto a fronte di un prezzo in crescita, perché questo consentirebbe una miglior possibilità di confronto.

Shopping natalizio: per gli italiani inizia in anticipo di oltre un mese 

La corsa ai regali di Natale last minute per molti italiani rimane un ‘classico’ dei giorni che precedono le festività, ma il 46,2% inizia a comprare le prime strenne già tra fine ottobre e fine novembre, e il 52,3% vorrebbe ricevere proposte dalle aziende nel medesimo periodo. Insomma, se per qualcuno lo shopping dei regali natalizi rappresenta un’attività molto piacevole, in cui si sceglie un regalo per amici e familiari, per altri coincide con un periodo di corse all’ultimo minuto. Ma per tutti è senza dubbio uno dei momenti in cui viene effettuato il maggior numero di acquisti. È quanto emerge da un sondaggio svolto da Esendex per comprendere le abitudini di acquisto degli italiani nelle settimane precedenti le feste.

Anticipare gli acquisti entro metà di ottobre o aspettare dicembre?

Dalla ricerca emerge, inoltre, che il 29,5% degli italiani anticipa gli acquisti dei regali natalizi entro la metà di ottobre, mentre il restante 24,3% preferisce aspettare l’inizio di dicembre prima di iniziare lo shopping. Agli intervistati è poi stato chiesto quando vorrebbero ricevere offerte e proposte di strenne natalizie, e più della metà (52,3%) ha risposto tra fine ottobre e fine novembre, il 37,3% entro metà ottobre, e il 9% dai primi di dicembre in avanti. Solo l’1,4% non è interessato a fare acquisti o non festeggia il Natale.

Offerte e promozioni arrivano molto prima delle festività

Considerando che un buon numero di persone desidera ricevere offerte e proposte molto prima delle festività, è stato poi domandato se considererebbero la possibilità di acquistare un regalo natalizio a seguito di una promozione ricevuta via SMS o Whatsapp. E a questa domanda l’83,8% degli intervistati ha risposto che lo farebbe sicuramente, o molto probabilmente.

Meglio ricevere suggerimenti su cosa regalare

“La nostra indagine ha confermato che le persone iniziano a pensare allo shopping natalizio con ampio anticipo e sono molto ricettive a suggerimenti e offerte già nei due mesi precedenti alle festività – ha commentato Carmine Scandale, Head of Sales di Esendex Italia -. Le aziende non possono quindi permettersi di arrivare in ritardo con la promozione delle proprie proposte. Le nostre soluzioni di mobile messaging rappresentano un’eccellente modalità per effettuare, anche in vista del Natale, campagne marketing mirate ed efficaci, consentendo di raggiungere le persone direttamente sul proprio smartphone, il touch-point di eccellenza per clienti e potenziali clienti”.

Equilibrio tra lavoro in presenza e flessibilità: una missione (im)possibile?

L’evoluzione del mondo del lavoro genera una serie di nuove preoccupazioni tra le aziende, tra cui la più urgente sembra riguardare la definizione del limite entro cui è possibile richiedere il lavoro in presenza. È quanto emerge dalla quinta edizione del l’European employer survey, il report annuale di Littler, che mostra una spaccatura tra il desiderio di aumentare il lavoro in presenza e la garanzia di flessibilità necessaria per attrarre e trattenere i talenti. Per il 30% dei direttori hr e in-house lawyer europei l’azienda per cui lavorano ha effettuato un completo ritorno alla presenza, e per il 27% ha optato per una forma ibrida, con più giorni di lavoro in presenza e meno da remoto. Solo per l’11% prevale un orario con più giorni da remoto e meno in presenza, mentre per il 5% i dipendenti lavorano completamente da remoto.

Le aziende preferiscono il lavoro in presenza?

Sembra quindi che le aziende preferiscano il lavoro in presenza. Così ha dichiarato il 73% dei datori di lavoro, che stanno valutando la possibilità di ridurre il lavoro a distanza. Questo però si scontra con la riluttanza dei dipendenti a rinunciare alla flessibilità acquisita. Cresce comunque l’importanza di valutare i vantaggi generati da modalità di lavoro da remoto, che il 79% vuole aumentare per attrarre e trattenere i talenti. I motivi principali che spingono le aziende a richiedere un maggior numero di ore di lavoro in presenza riguardano il lavoro di squadra, in particolare, il mantenimento della cultura aziendale e del coinvolgimento dei dipendenti (53%).

Resta alta l’attenzione a salute mentale e benessere dei dipendenti

Indipendentemente dal modello di lavoro, resta alta l’attenzione a salute mentale e benessere delle risorse umane. Sebbene 9 intervistati su 10 abbiano adottato iniziative in questa direzione, solo il 28% lo ha fatto in maniera strutturata. Inoltre, quando si tratta di offrire una soluzione al burnout, la flessibilità oraria è stata l’unica misura adottata (54%), mentre meno di un terzo degli intervistati indica il lavoro individuale con i dipendenti per gestire i carichi di lavoro. La gestione del nomadismo digitale, poi, rappresenta un’altra nuova sfida. Un fenomeno in aumento, con il 73% delle aziende che dichiara di avere dipendenti ‘nomadi digitali’. Tra queste, l’89% è preoccupata per i rischi legali, le implicazioni fiscali e altri problemi occupazionali.

AI efficace per attrarre talenti, ma c’è cautela ad assumere

Per supportare le attività di recruiting e assunzione il 47% degli intervistati sta utilizzando o pianificando di utilizzare soluzioni tecnologiche o strumenti di AI. Inoltre, il 61% di coloro che già utilizzano tali strumenti ne ha incrementato l’utilizzo, sottolineando l’efficacia dell’AI e della tecnologia per attrarre nuovi talenti. Ma in un contesto di crescente incertezza economica, l’indagine rileva anche segnali di cautela da parte dei datori di lavoro europei, che tuttavia non sembrano ancora adottare misure drastiche. Circa un quarto (27%) esita nell’assunzione di nuove risorse, mentre il 37% sta valutando o attuando riduzioni di personale.

Lavoro: il Quiet Quitting mette in difficoltà le aziende

Stando agli ultimi dati pubblicati dall’Osservatorio sul Precariato dell’Inps, in Italia nel primo semestre 2022 oltre 1 milione di persone ha deciso di dare le dimissioni dal posto di lavoro. Rispetto al primo semestre 2021 le dimissioni sono cresciute del 31,73%, in parallelo a un incremento del 26% di assunzioni. Il fenomeno delle Grandi dimissioni continua quindi a essere centrale a livello nazionale. A livello internazionale, però, sembra che il fenomeno stia lasciando spazio a un nuovo trend, il Quiet Quitting. Trascorsa quindi l’onda più drastica della consegna delle dimissioni, ora molti lavoratori scelgono una via più lenta, senza tagli netti. Quiet Quitting significa infatti “lasciare lentamente”, ovvero, mollare la presa sul lavoro, limitandosi a fare lo stretto necessario.

Evitare lavoro extra, straordinari, reperibilità

“Il fenomeno del Quiet Quitting, seppur possa sembrare meno impattante rispetto a quello delle dimissioni di massa, non deve e non può essere trascurato dalle aziende – spiega Carola Adami, fondatrice di Adami & Associati -. Le persone che scelgono in modo razionale e sì, strategico, di mettere paletti chiari alla propria vita lavorativa iniziano con evitare il lavoro extra, gli straordinari, la reperibilità, smettendo del tutto di considerare la propria carriera lavorativa come una priorità. E questo, in uno scenario in cui fin troppo spesso le aziende contano proprio sugli extra, e sullo sforzo in più da parte dei dipendenti per raggiungere gli obiettivi prefissati, può ovviamente diventare un problema considerevole”.

Solo il 21% dei dipendenti globali è ancora coinvolto dal proprio lavoro

Al di là dei social network, dove l’hashtag #quietquitting continua a guadagnare popolarità, la concretezza del fenomeno è testimoniata dal report State of the global workplace 2022 di Gallup. Lo studio dice che se prima della pandemia l’engagement dei dipendenti nei confronti delle aziende fosse in continuo aumento a livello globale, oggi è invece stagnante o in flessione. Guardando ai numeri attuali, solamente il 21% dei dipendenti afferma di essere coinvolto dal proprio lavoro, un dato che in Europa scende al 14%.

Un fenomeno che riguarda soprattutto Millennial e Gen Z

“I numeri mostrano che il fenomeno del Quiet Quitting riguarda soprattutto i lavoratori delle generazioni Millennial e Z, ovvero la forza lavoro nata a partire dagli anni Ottanta, che rappresenta la parte più produttiva e più importante per lo sviluppo delle aziende – spiega Adami -. Se per evitare le dimissioni dei dipendenti le aziende sono chiamate a investire nella formazione degli assunti, a introdurre benefit e ad ascoltare le esigenze dei dipendenti, nel caso del Quiet Quitting l’attenzione va posta soprattutto sul dialogo, e sulla costruzione di un rapporto autentico ed empatico tra manager e membri del proprio team. Questo, perché un ambiente di lavoro sano e trasparente permette di ridurre il turnover e aumentare la propensione alla produttività”.

Piccole e medie imprese, gli incidenti di cybersecurity sono tra gli eventi più gravi

Calo deciso delle vendite, certo, ma anche attacchi informatici: ecco quali sono le maggiori difficoltà in cui possono incorrere le piccole e medie imprese. Lo rivela un recente sondaggio globale di Kaspersky, condotto su 1.307 decision-maker di aziende con un numero di dipendenti compreso tra 1 e 999. Insomma, a fare paura alle aziende sono proprio queste due evenienze, quasi allo stesso livello. Addirittura, il 13% degli intervistati di piccole e medie aziende ritiene che gli attacchi online siano la sfida più impegnativa. I risultati della ricerca indicano anche che la probabilità di incorrere in un incidente di cybersecurity aumenta in base al numero di dipendenti dell’azienda.

Preoccupazioni non infondate

Le preoccupazioni per la sicurezza informatica non sono infondate, soprattutto se si considera che la probabilità di dover affrontare un problema legato alla cybersecurity aumenta con la crescita dell’azienda. Sebbene solo l’8% delle organizzazioni con un numero di dipendenti compreso tra 1 e 8 abbia dichiarato di aver affrontato un incidente di sicurezza informatica, questa percentuale sale al 30% tra le aziende con più di 501 dipendenti. “Oggi gli incidenti di cybersecurity possono interessare le aziende di tutte le dimensioni e incidere in modo significativo su attività, redditività e reputazione. Tuttavia, come mostra il nostro report Incident Response analytics, nella maggior parte dei casi gli avversari sfruttano evidenti lacune nella sicurezza informatica di un’organizzazione per accedere alla sua infrastruttura e rubare denaro o dati. Questo suggerisce che le misure di protezione di base, accessibili anche alle piccole aziende, come efficaci policy di password, aggiornamenti regolari e la consapevolezza dei dipendenti in materia di sicurezza, se non vengono trascurate, possono contribuire in modo significativo alla cybersecurity dell’azienda”, ha commentato Konstantin Sapronov, Head of Global Emergency Response Team di Kaspersky.

Come proteggersi?

Le raccomandazioni per non incorrere in questi incidenti sono sempre le stesse, ma vanno attuate. Si tratta di implementare la policy di password forti, richiedendo che la password di un account utente standard abbia almeno otto caratteri, un numero, lettere maiuscole e minuscole e un simbolo speciale. Ovviamente le password vanno modificate se esiste il sospetto che siano state compromesse: per essere più sicuri, si può adottare un sistema di sicurezza con un gestore password integrato. Ancora, è importante aggiornare regolarmente software e dispositivi e proteggersi dal ransomware  con soluzioni di sicurezza capaci di identificare e bloccare malware sconosciuti.

The State of Software Development lancia un appello agli sviluppatori italiani

BitBoss, startup innovativa incubata in I3P, l’Incubatore delle imprese innovative del Politecnico di Torino, per il terzo anno consecutivo lancia un appello agli sviluppatori italiani perché prendano parte alla ricerca annuale The State of Software Development in Italy.
“L’obiettivo è quello di scattare una fotografia in costante evoluzione della figura dello sviluppatore – spiega Davide Leoncino, Co-Founder e Head of Marketing BitBoss -. Una professione ormai fondamentale per la vita delle imprese e che tutti gli imprenditori dovrebbero imparare a conoscere e a valorizzare se vogliono competere per attirare i talenti migliori”.

Talenti rari che le imprese fanno sempre più fatica ad attirare

Nel 2020, il 35,5% degli sviluppatori freelance affermava di aver registrato un incremento del lavoro durante il lockdown, mentre solamente il 17,3% dichiarava di aver subito una flessione negativa. Nel 2021, 9 sviluppatori su 10 affermavano di essere occupati e soddisfatti del proprio lavoro e solo il 10% stava cercando attivamente un lavoro. Secondo una ricerca condotta da Indeed, quello dello sviluppatore di software è uno dei lavori più pagati e richiesti in Italia. Eppure è sempre più difficile trovare risorse esperte in questo campo: gli sviluppatori continuano a essere talenti rari che le imprese fanno sempre più fatica ad attirare.

Grandi Dimissioni e aumento estremo della domanda 

Il fenomeno della Great Resignation sta interessando diversi settori, tra cui anche quello dello sviluppo software. Una ricerca della Harvard Business Review ha infatti rivelato che i tassi di dimissioni hanno interessato più che altro i lavoratori impegnati nei campi che avevano registrato un aumento estremo della domanda a causa della pandemia, portando probabilmente a un eccessivo aumento nei carichi di lavoro. Intanto, la domanda di figure tecniche da parte delle aziende cresce, e non solo per poter competere in maniera efficace sui mercati esistenti, ma soprattutto grazie all’emergere di nuove opportunità di business nel digitale. Esempi sono rappresentati dalle nuove tecnologie legate alla blockchain e al web3.

Cosa si può prevedere per il futuro?

Secondo uno studio condotto da Forbes, le startup che operano nel mondo delle criptovalute hanno ottenuto nel complesso 30 miliardi di dollari di investimento in VC nel 2021, 50 dei quali hanno raccolto oltre 100 milioni di dollari. Alla luce di questi dati cosa si può prevedere per il futuro? “Sicuramente chi conosce il mondo della tecnologia da vicino avrà un’opinione in merito e vorremmo capire se gli sviluppatori in Italia percepiscono tutte queste innovazioni come il futuro del web, oppure se associano questi fenomeni a una serie di bolle pronte a scoppiare – commenta Davide Leoncino, Co-Founder e Head of Marketing di BitBoss -. Sicuramente capire qual è l’opinione di chi lavora tutto il giorno nel mondo dell’innovazione dovrebbe influenzare il modo che avranno le aziende di utilizzare queste nuove tecnologie”.

Connettività: il traffico dati su mobile raggiunge i 100 Exabyte

La soglia è stata superata nel secondo trimestre di quest’anno: il traffico dati da mobile ha raggiunto i 100 Exabyte al mese, ovvero, è pari 1000 miliardi di byte. Più in particolare, secondo l’Ericsson Mobility Report, che offre un aggiornamento dal mondo della connettività, il volume di dati è cresciuto del +8% rispetto al trimestre precedente, del +39% in un solo anno ed è addirittura raddoppiato nel giro di due anni e mezzo.
La lievitazione dei dati si spiega con la oramai consueta combinazione tra l’aumento degli abbonamenti a banda larga e una fruizione sempre più focalizzata sui video, che esige infatti un maggiore consumo di dati.

Tra aprile e giugno 2022 abbonamenti mobile broadband a +100 milioni

Oggi l’86% delle Sim in circolazione sono legate a un abbonamento alla banda larga mobile. Permettono, in altre parole, di accedere a Internet e app. Sempre secondo l’Ericsson Mobility Report, tra aprile e giugno di quest’anno il numero di abbonamenti di tipo mobile broadband è aumentato di 100 milioni di unità, arrivando a un totale di circa 7,2 miliardi, con un incremento del +6% anno su anno.

La Lte è la generazione dominante

Quanto agli standard di connessione, la rete Lte (Long Term Evolution) è la generazione dominante: gli abbonamenti sono 5 miliardi, ossia il 60% di tutti gli abbonamenti mobili, mentre quelli 5G sono ancora molti meno, 690 milioni in tutto il mondo, ma crescono in modo sostenuto, +70 milioni nel secondo trimestre 2022 contro i 77 milioni della Lte. Non è una novità che il tasso di penetrazione degli abbonamenti mobile superi il 100%: oggi è al 106%. Vuol dire, in sostanza, che sulla Terra ci sono più Sim attive (8,3 miliardi) che esseri umani. Nel secondo trimestre, la spinta è arrivata soprattutto dalla Cina, con 10 milioni di abbonamenti in più, dall’India (+7 milioni) e dall’Indonesia (+4 milioni).

“Il 5G agirà da catalizzatore per l’evoluzione”

“Il 4G è ancora oggi l’unico modo con cui miliardi di persone in tutto il mondo accedono a Internet – ha affermato all’Agi Andrea Missori, amministratore delegato di Ericsson in Italia -. Il 5G agirà da catalizzatore per l’evoluzione. Le nuove reti sono implementate non solo per continuare a supportare la crescente domanda di dati e per abilitare nuovi casi d’uso in ambito industriale e consumer, ma anche per aiutare a ridurre il consumo di energia e contribuire alla transizione ecologica”.

I consumatori italiani sono i più pessimisti in Europa sull’inflazione

Sono i consumatori italiani i più pessimisti nell’area euro sulle attese dell’inflazione. Secondo la mediana calcolata dalla Bce nella nuova indagine sulle aspettative dei consumatori, per i prossimi 12 mesi gli italiani si attendono un livello superiore al 6%. Un valore pari a un intero punto percentuale al di sopra delle aspettative dei consumatori di Belgio, Germania, Spagna e Olanda, che per i 12 mesi prevedono attese medie di inflazione intorno al 5%. All’opposto, le aspettative di inflazione più contenute sono quelle dei consumatori francesi, che secondo l’ultima rilevazione della Bce presentano una media poco sotto il 4%.

Il livello di inflazione percepita riguardo ai 12 mesi passati è pari al 10%

Va rilevato poi che i consumatori italiani sono anche quelli che mostrano il maggior livello sull’inflazione percepita guardando indietro ai 12 mesi passati, con un livello mediano pari al 10%.
Secondo l’indagine della Bce i consumatori di Spagna e Olanda hanno percepito una inflazione poco sotto il 9%, quelli del Belgio all’8%, i consumatori della Germania poco sopra il 7%, e anche in questo caso, il valore più basso si registra tra i consumatori della Francia, con una inflazione mediana percepita attorno al 5%.

A giugno l’inflazione percepita dai consumatori europei è stata del 8,6%

La Bce ha recentemente pubblicato per la prima volta anche i risultati di una nuova indagine proprio sulle aspettative dei consumatori europei, che riguarda diverse voci e di cui l’inflazione è il primo aspetto. A giugno l’inflazione percepita dai consumatori europei sugli ultimi 12 mesi è stata del 8,6%, e in media è del 7,2% a livello mediano. La ‘media’ è il numero che risulta dalla divisione di tutti i dati riportati per il numero di partecipanti a un sondaggio. La ‘mediana’, invece, è il numero che si trova nella posizione centrale quando i dati vengono ordinati in maniera crescente. Per l’insieme dell’area euro la Bce fornisce entrambi, mentre sui singoli Paesi pubblica grafici unicamente con il livello mediano.

Per i prossimi tre anni le attese degli italiani restano le più elevate

Secondo i dati relativi a un sondaggio effettuato a giugno, riporta Askanews, l’aspettativa di inflazione sui prossimi 12 mesi è invece stata del 6,6% in media e del 5% a livello mediano a livello dell’area euro.  Sui prossimi tre anni la media delle attese di inflazione dei consumatori è del 4,6%, mentre la mediana è del 2,8%. Sulle aspettative dei consumatori per i prossimi tre anni le attese degli italiani restano le più elevate, ma con un divario meno marcato: poco sopra il 3% nella Penisola, al 3% in Olanda e Spagna, poco sotto il 3% in Belgio, attorno al 2,5% in Germania e al 2% in Francia.

Alle Pmi i rincari di luce e gas nel 2022 costano quasi 106 miliardi

Una stangata che rischia di provocare una vera debacle al nostro sistema produttivo: sfiora i 106 miliardi di euro il costo aggiuntivo che le Pmi italiane subiranno quest’anno a causa dei rincari di energia elettrica e gas. La stima è stata calcolata dall’Ufficio studi CGIA, giunto a questo risultato ipotizzando, per l’anno in corso, gli stessi consumi registrati nell’anno pre-pandemia, ma applicando per l’intero 2022 le tariffe medie di luce e gas sostenute in questi ultimi sei mesi. I 106 miliardi di extra costo, tuttavia, potrebbero essere addirittura sottostimati. Se dal prossimo autunno la Russia dovesse chiudere ulteriormente le forniture di gas verso l’Europa, è probabile che il prezzo di questa materia prima subirà un’impennata, che spingerà il costo medio dell’ultima parte dell’anno a un livello molto superiore a quello registrato nei primi sei mesi del 2022.

Nei primi sei mesi del 2022 costo medio dell’energia elettrica +378%

In ogni caso, se nel 2019 il costo medio dell’energia elettrica ammontava a 52 euro per MWh, nei primi sei mesi del 2022 si è attestato a 250 euro (+378%). Pertanto, a fronte di un consumo di 217.334 GWh, il costo totale in capo alle imprese nel 2019 ha toccato i 35,9 miliardi di euro, mentre quest’anno la bolletta toccherà 108,5 miliardi di euro (+72,6 miliardi).

Il confronto sul 2019 per il gas

Per il gas, viceversa, se tre anni fa il costo medio era di quasi 16 euro per MWh, nei primi sei mesi del 2022 il prezzo ha sfiorato i 100 euro (+538%). Perciò, a fronte di un consumo medio annuo di 282.814 GWh, nel 2019 le imprese hanno sostenuto un costo medio complessivo pari a 9,5 miliardi di euro, contro i 42,8 miliardi del 2022 (+33,3 miliardi di euro). Sommando quindi i 72,6 miliardi di extra costi per la luce e i 33,3 per il gas otteniamo 105,9 miliardi di costi aggiuntivi che le aziende dovranno farsi carico quest’anno rispetto al 2019.

Le misure di mitigazione

Ancorché insufficienti, riporta Askanews, va comunque segnalato che il Governo ha in parte smorzato l’impennata dei costi energetici. I soldi messi a disposizione per mitigare i rincari nel biennio 2021-22, infatti, ammontano, includendo anche il Decreto Aiuti, a 22,2 miliardi di euro, di cui 16,6 nel 2022. Di questi, 3,2 miliardi hanno ‘ristorato’ le famiglie, 7,5 le imprese e 11,5 sosterranno sia le prime sia le seconde.