Aziende

Imballaggi in acciaio, dal 2000 recuperate 7,5 milioni di tonnellate

Grazie al riciclo degli imballaggi in acciaio, quali ad esempio barattoli, scatole, scatolette, lattine, fusti, secchielli, bombolette, tappi e chiusure, dal 2000 a oggi in Italia si è risparmiato un quantitativo di acciaio pari al peso di 800 Tour Eiffel, per un valore economico di 1 miliardo di euro di materia recuperata. Un risultato possibile grazie all’impegno di tutta la filiera, a partire dai cittadini: nel 2021 la raccolta pro capite di imballaggi in acciaio è cresciuta ulteriormente, raggiungendo quota 4,4 kg per abitante, con un aumento del +9,7% rispetto all’anno precedente. I dati sono stati presentati a Roma in occasione dell’assemblea annuale di Ricrea, il Consorzio Nazionale per il Recupero e il Riciclo degli Imballaggi in Acciaio (parte del Sistema Conai), e sono contenuti nel Green Economy Report ‘Dall’acciaio all’acciaio: il contributo nella lotta al cambiamento climatico’, elaborato dalla Fondazione per lo sviluppo sostenibile.

Un materiale che si ricicla al 100% all’infinito 

“Già nel 2002 abbiamo superato l’obiettivo del 50% dell’immesso al consumo fissato dalla direttiva europea per il 2008, e il tasso di riciclo è cresciuto fino ad attestarsi negli ultimi anni su valori superiori al 70%, l’obiettivo da raggiungere nel 2025 – commenta Domenico Rinaldini, presidente di Ricrea -.  Questi dati dimostrano che il nostro sistema ha reagito bene all’impatto della pandemia, assicurando anche in questi anni difficili il corretto avvio al riciclo degli imballaggi in acciaio provenienti dalla raccolta differenziata e creando valore: l’acciaio infatti è un materiale permanente, che si ricicla al 100% all’infinito”.

Un risparmio di 8 milioni di tonnellate di materiale primario

Nell’ultimo anno è ulteriormente aumentata la quota pro-capite di imballaggi in acciaio raccolti, in media 4,4 Kg (+9,7% rispetto al 2020). Nel 2021 in Italia sono state avviate al riciclo 390.000 tonnellate di imballaggi in acciaio, sufficienti per realizzare circa 3.900 km di binari ferroviari.
I 7,5 milioni di tonnellate di imballaggi in acciaio avviati al riciclo in Italia dal 2000 a oggi hanno consentito di ottenere un risparmio di 8 milioni di tonnellate di materiale primario, generando benefici economici per 1 miliardo di euro di materia recuperata e 386 milioni di euro di CO2 evitata.

Circa 12 milioni di tonnellate di CO2eq in meno nell’atmosfera

L’avvio a riciclo dei rifiuti di imballaggio in acciaio e la rigenerazione di fusti e cisternette a livello nazionale ha consentito, tra il 2000 e il 2021, di evitare l’emissione in atmosfera di circa 12 milioni di tonnellate di CO2eq, pari alle emissioni generate da 7 milioni di autovetture con percorrenza media di 10.000 km. Inoltre, riporta Adnkronos, ha permesso al nostro Paese di evitare il consumo di circa 50mila GWh di energia primaria, pari al consumo medio di energia di circa 13 milioni di famiglie italiane.

Gender equality, e se il futuro in azienda fosse donna?

Qual è il punto sulla parità di genere nelle aziende italiane? Questa tema, particolarmente “caldo”, è stato al centro di una recente ricerca effettuata da EY con SWG. Subito l’indagine mette in luce che l’obiettivo della parità di genere nei ruoli dirigenziali sia tutt’altro che semplice da raggiungere nel breve termine: per il 35% delle dirigenti intervistate ci vorranno più di 10 anni, mentre per il 16% sarà del tutto irraggiungibile. Come se non bastasse, la metà delle lavoratrici intervistate ritiene presente uno squilibrio nella possibilità di carriera e di compensi rispetto ai colleghi uomini. 

Donne penalizzate

Anche se emerge – ed è una buona notizia – che le doti di leadership non sono in alcun modo legate al genere, la ricerca evidenzia che nel contesto lavorativo ci sono ancora forti squilibri di genere con una decisa penalizzazione delle donne. In particolare, il 30% delle lavoratrici tra 30 e 50 anni afferma che la posizione professionale occupata non è in linea con le proprie competenze e aspettative, mentre il 40% ritiene che la propria retribuzione non sia adeguata al lavoro svolto. Inoltre, il 52% dichiara che nella propria azienda uomini e donne non hanno le stesse opportunità di fare carriera. A supporto dei dati appena citati, emerge che nella percezione sia delle lavoratrici che dei dirigenti (donne e uomini) interpellati, solo in un terzo delle aziende è presente una parità di genere per quanto riguarda i ruoli dirigenziali e laddove le donne occupino ruoli dirigenziali, si trovano a gestire una quantità di risorse inferiori rispetto ai colleghi. Un altro dato significativo circa le difficoltà con cui si devono misurare le lavoratrici riguarda la maternità: oltre la metà delle intervistate ha dichiarato di aver ricevuto durante il primo colloquio di lavoro domande sul fatto di avere figli o di volerne in futuro. Dunque, la maternità appare ancora un elemento di ostacolo nei percorsi di ingresso nel mondo del lavoro e nella possibilità di fare carriera. 

Ancora poche le aziende che hanno politiche ad hoc

A livello di iniziative per ridurre il gender gap, nella percezione degli intervistati risultano ancora poche le aziende italiane che si sono dotate di un struttura organizzativa ad hoc per affrontare temi come gender equality e inclusione. Nello specifico, il 68% delle aziende non è dotato di una struttura ad hoc che si occupi di inclusione e solo il 21% ha previsto di crearne una prossimamente.  In particolare risultano mancare soprattutto le strutture in favore di un corretto equilibrio tra lavoro e famiglia, oltre a sistemi per la misurazione della gender equality. Un dato che fa particolarmente riflettere è quello sulla diversa percezione tra dirigenti uomini e donne in fatto di effettiva equità nel trattamento: per il 76% dei dirigenti uomini c’è parità di trattamento, contro il 50 % dei dirigenti donne.

Imprese e abitazioni, un vademecum per l’efficienza energetica

Quali accorgimenti si possono adottare per intervenire sui consumi energetici di case e imprese e ottener benefici in bolletta e per l’ambiente? Lo spiega all’Adnkronos Dario Di Santo, direttore di Fire – Federazione italiana per l’uso razionale dell’energia.
“Se parliamo di famiglie – commenta Di Santo – il primo consiglio è di guidare l’auto in modo dolce: si possono ridurre i consumi del 15-20%, il tempo richiesto per lo spostamento cresce molto meno del risparmio, e si arriva a destinazione più rilassati”.
In casa si possono installare luci a led, e per stare attenti agli sprechi seguire i consigli riportati nelle istruzioni dei propri elettrodomestici per un uso ecologico degli stessi. “I risparmi conseguibili – continua Di Santo – dipendono dal livello di efficienza energetica di partenza”.

Investire negli interventi di riqualificazione

A lungo termine, “è possibile investire in interventi di riqualificazione energetica per tutte le esigenze – aggiunge Di santo -. Da quelli che riguardano l’involucro edilizio a quelli in centrale termica, senza dimenticare i sistemi di gestione ottimale del sistema edificio-impianto e la generazione in loco. Discorsi simili si possono fare per gli edifici del terziario. Sono tra l’altro disponibili incentivi piuttosto interessanti, dai vari bonus edilizi al conto termico. In questo caso i risparmi conseguibili possono essere davvero rilevanti e si ottengono grandi benefici in termini di comfort, sicurezza e valorizzazione dell’immobile”.

Le imprese ‘energivore’

Per le imprese cosiddette ‘energivore’, “non sempre è facile conseguire benefici immediati – puntualizza Di santo -. In genere i grandi consumatori di energia sono stati più attenti negli anni e dunque fanno più fatica a individuare interventi semplici. Si tratta dunque di imprese che necessitano di un supporto sia per investire sia per fare fronte a costi energetici non compatibili con i propri bilanci. Questi soggetti rappresentano però una percentuale molto piccola delle imprese italiane: negli elenchi della Csea gli energivori sono nell’ordine delle 3.500 aziende”. Negli altri casi, spiega Di Santo, “facendosi aiutare da un energy manager o da un Ege, esperto in gestione dell’energia, è possibile individuare le aree di spreco energetico, ossia i risparmi immediati, e le opportunità di intervento più interessanti e cantierabili in tempi brevi”.

Mettere a punto una strategia di intervento

Guardando a tempi più lunghi, secondo Di Santo “per le imprese si tratta di mettere a punto una strategia di intervento su efficienza energetica e fonti rinnovabili di medio periodo, accorpando gli interventi con pay-back time breve e lungo, in modo da ottenere il recupero dei capitali in tempi accettabili. Attraverso un energy management adeguato, meglio ancora un sistema di gestione dell’energia certificato ISO 50001, è possibile conseguire risparmi energetici crescenti negli anni, insieme a benefici rilevanti nell’ottica della sostenibilità, ma anche della produttività, della riduzione dei rischi e dei costi, e della competitività”.

Gli attacchi alle email aziendali sono in aumento

Gli attacchi alle email aziendali (Business E-mail Compromise, BEC) sono schemi di frode che consistono nell’impersonare il membro affidabile di un’azienda.
Nel quarto trimestre del 2021 i sistemi di Kaspersky hanno sventato più di 8.000 attacchi BEC, che hanno raggiunto il picco in ottobre con un totale di 5.037 attacchi. Secondo Verizon, questo tipo di frode è stato il secondo attacco di social engineering più comune del 2021. Nel corso del 2021, i ricercatori di Kaspersky hanno analizzato il modo in cui i truffatori creano e diffondono le email false, scoprendo che gli attacchi tendono a rientrare in due categorie: su larga scala (BEC-as-a-Service) ed estremamente mirati (BEC mirati).

BEC-as-a-Service e BEC mirati

Gli attacchi BEC-as-a-Service si basano su un meccanismo molto semplice in modo da poter raggiungere un numero più alto di vittime. Per riuscirci, gli attaccanti inviano in massa messaggi non particolarmente sofisticati da account di posta gratuiti. Altri criminali propendono per strategie più avanzate, gli attacchi BEC mirati, che colpiscono una casella di posta intermedia ottenendo l’accesso alla mail di quel dato account.
Successivamente, una volta trovata una corrispondenza adatta nella casella di posta elettronica compromessa della società intermediaria (questioni finanziarie o problematiche tecniche relative al lavoro), continuano la corrispondenza con la società presa di mira impersonando l’azienda intermediaria. Spesso l’obiettivo è quello di persuadere la vittima affinché invii denaro o installi un malware.

“I truffatori usano questi schemi perché funzionano”

Questa tipologia di attacco si è rivelata particolarmente efficace, ragion per cui non è una tecnica sfruttata solamente da ‘piccoli’ criminali alla ricerca di facili guadagni.
“Al momento gli attacchi BEC sono tra le tecniche di ingegneria social più diffuse – spiega Roman Dedenok, security expert di Kaspersky -. La ragione è semplice: i truffatori usano questi schemi perché funzionano. Dal momento che sempre meno persone cascano nella trappola delle finte email di massa, i truffatori hanno incominciato a raccogliere attentamente i dati sulle loro vittime per poi servirsene per guadagnarsi la loro fiducia. Alcuni di questi attacchi vanno in porto proprio perché i cybercriminali riescono a trovare con facilità i nomi e i ruoli lavorativi dei dipendenti, così come le liste dei contatti in open access”.

Lo smart working alimenta una scarsa ‘igiene digitale’

“Le email restano il principale canale di comunicazione usato dalla maggior parte delle aziende – aggiunge Oleg Gorobets, Senior Product Marketing Manager di Kaspersky -. Tuttavia, man mano che lo smart working e l’archiviazione nel cloud diventano la nuova quotidianità, insieme all’aumento di una scarsa ‘igiene digitale’ prevediamo l’emergere di nuovi metodi di truffa, che sfrutteranno queste lacune nella sicurezza aziendale – puntualizza Gorobets -. Servirsi di una soluzione di sicurezza specifica e di una tecnologia ben collaudata e supportata da dati efficaci sulle minacce e algoritmi di machine learning può aiutare a fare la differenza”.

Il futuro dello smart working secondo le imprese del milanese

Lo smart working, il lavoro a distanza, è diventato una quasi normalità dall’inizio della pandemia, anche nel nostro Paese dove era una modalità poco praticata. Una modalità di lavoro, quella da remoto, che è stata adottata moltissimo nella prima ondata dell’emergenza, ovvero quella dei lockdown più restrittivi, ma che sta ritornando in auge anche ora con la variante Omicron. Al momento, infatti, molte imprese del settore privato sono ritornate ad aumentare nuovamente il numero di dipendenti in smart-working. A metà gennaio, secondo il sondaggio Ipsos condotto per Confesercenti, il 48% dei dipendenti del settore privato era già in smart-working o prevedeva di tornarci a breve. Una quota talmente elevata da avere un forte impatto sui pubblici esercizi nei centri città e nei quartieri di uffici, che Confesercenti stima in da noi 850 milioni di euro al mese di minori consumi.

Che fine farà il remote work per le aziende?

Per scoprire quali siano le prospettive del lavoro da remoto da parte delle imprese dopo due anni di pandemia, il sondaggio Ipsos “Le imprese milanesi ai tempi del Covid” – condotto per Laboratorio Futuro dell’Istituto Toniolo – ha indagato le opinioni di aziende e lavoratori milanesi in merito allo smart-working ai tempi del Covid-19. Le principali evidenze sono che Il 43% delle aziende di Milano e provincia non ritiene possibile lo smart-working. Si tratta in questo caso di aziende di piccole dimensioni, localizzate nella provincia di Milano e operanti nel settore del commercio. Inoltre, il 47% delle aziende ritiene che lo smart-working sia applicabile solo per alcune funzioni e livelli aziendali.

Smart working promosso, reclutamento a distanza no  

Ma come hanno giudicato l’esperienza dello smart working le aziende intervistate? Su una scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente), la valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart-working, espressa dalle aziende coinvolte nell’indagine, è pari a 6,64. Le aziende più soddisfatte sono quelle dei comuni della prima fascia, di grandi dimensioni, nel settore del commercio.
Il reclutamento a distanza ha riguardato il 71,1% delle aziende e la valutazione media di questa esperienza è negativa, infatti il 78,6% dichiara che non farà ricorso al reclutamento a distanza in futuro. Invece, per quanto riguarda lo stage a distanza, l’8% del campione intervistato ha fatto questa esperienza e solo il 2,7% intende proseguirla. Su una scala da 1 (pessimo) a 10 (eccellente), la valutazione media complessiva dell’esperienza dello smart-working, espressa dalle aziende intervistate, è pari a 6,64. Le aziende più soddisfatte sono quelle dei comuni della prima fascia, di grandi dimensioni, nel settore del commercio.

Industria, a ottobre 2021 fatturato stimato +16,9

Secondo le stime dell’Istat per il mese di ottobre del 2021 il fatturato totale del macrosettore cresce in termini tendenziali del 16,9%. Precisamente, +19,4% sul mercato interno e +12,1% su quello estero. Stime positive, quindi, corrette per gli effetti di calendario: i giorni lavorativi di ottobre 2021 sono stati 21 contro i 22 di ottobre 2020.  A livello congiunturale, la stima di crescita dell’Istat al netto dei fattori stagionali è invece del 2,8%. Un balzo risultante da una crescita su entrambi i mercati, +3,4% quello interno e +1,4% quello estero.

Aumento per tutti i settori: energia, beni strumentali, intermedi e di consumo 

Nella media del trimestre agosto-ottobre l’indice complessivo evidenzia un incremento del 2,8% rispetto ai tre mesi precedenti. In particolare, +4,0% sul mercato interno e +0,7% su quello estero. Con riferimento ai raggruppamenti principali di industrie, a ottobre gli indici destagionalizzati del fatturato segnano un aumento congiunturale per tutti i principali settori, dall’energia (+5,4%) ai beni strumentali (+3,9%), dai beni intermedi (+2,3%) ai beni di consumo (+1,8%).

Trend positivo per il quinto mese consecutivo

Per quanto riguarda gli indici corretti per gli effetti di calendario riferiti ai raggruppamenti principali di industrie, l’Istat registra incrementi tendenziali molto marcati per l’energia (+49,0%) e i beni intermedi (+28,0%), più contenuti invece per i beni di consumo (+10,9%) e i beni strumentali (+4,2%). Con riferimento al comparto manufatturiero, gli aumenti tendenziali riguardano tutti i settori di attività economica, a eccezione del comparto dei mezzi di trasporto, riporta Askanews.
“Prosegue a ottobre, per il quinto mese consecutivo, la crescita congiunturale del fatturato dell’industria – commenta l’Istituto per gli studi statistici -. Anche nella media degli ultimi tre mesi la dinamica congiunturale segna un risultato positivo. Nel confronto tendenziale su dati corretti per i giorni lavorativi, l’incremento è diffuso a tutti i principali raggruppamenti di industrie, con aumenti più marcati per l’energia e i beni strumentali”.

Terzo trimestre: Pil +6,2%

Gli indicatori positivi del fatturato industriale, inoltre, trainano numerosi altri settori, che spingono verso l’alto il prodotto interno lordo nella sua totalità.
Nella media del trimestre agosto-ottobre l’indice complessivo del Pil ha infatti evidenziato un incremento del 6,2%, superando di 2 punti percentuali le stime degli economisti e del Governo. Numeri positivi supportati anche dagli studi di Bankitalia, secondo i quali lo scenario macroeconomico prefigurerebbe, oltre all’aumento del Pil nel terzo trimestre 2021, aumenti del 4,0% nel 2022, del 2,5% nel 2023, e dell’1,7% nel 2024, si legge su affaritecnici.it.

Perché è importante che l’aria compressa sia oil-free?

Chi adopera quotidianamente un compressore industriale conosce bene l’esigenza di poter lavorare con uno strumento che garantisca aria pura e libera da residui di olio, per salvaguardare sia i macchinari utilizzati per la produzione che il prodotto finale stesso.

L’aria compressa deve necessariamente essere oil-free al 100% soprattutto quando si tratta della produzione di articoli definiti “sensibili” come ad esempio gli apparecchi elettronici, i farmaci e anche gli alimenti.

È importantissimo che la qualità della lavorazione, e di conseguenza quella dell’aria, siano massime. A questo proposito i compressori rotativi Atlas Copco vengono considerati tra i migliori in quanto sono in grado di annullare qualsiasi rischio di contaminazione di olio nell’aria compressa ed evitare qualsiasi tipo di danno al macchinario o al prodotto stesso, i quali sono certamente causa di ulteriori esborsi economici per l’azienda produttrice.

Le specifiche necessità di chi adopera l’aria compressa

In dettaglio, per quel che riguarda l’industria farmaceutica, è molto importante garantire la totale assenza di olio nell’aria compressa per far si che processi come il rivestimento di farmaci, il loro imballaggio o imbottigliamento non venga nessun modo contaminato. Per quel che riguarda gli alimenti, è facile intuire perché sia di fondamentale importanza che l’aria compressa non abbia nemmeno il minimo residuo d’olio, e questo vale sia per la fase di fermentazione o areazione che per le successive fasi di imballaggio e riempimento. Quanto all’elettronica invece, avere dell’aria secca e pulita è molto importante per qualsiasi tipo di componente, il quale potrebbe anche eventualmente essere costoso da sostituire.

Vi sono anche altri professionisti che possono avere bisogno di utilizzare aria compressa con delle esigenze particolari e che certamente non necessitano di residui d’olio al suo interno. Parliamo ad esempio di studi dentistici, veterinari o direttamente gli ospedali i quali hanno la necessità di adoperare aria compressa per curare i propri pazienti. Per attività cliniche di questo tipo è chiaramente importante che l’aria compressa adoperata non sia contaminata dall’olio ed evitare altresì che questo possa andare a rovinare, o causare  un malfunzionamento, degli strumenti adoperati per il lavoro.

Oil-free: uno standard per il settore

L’assenza di olio all’interno dell’aria compressa è uno standard che è irrinunciabile per tutti quei processi produttivi all’interno dei quali la qualità dell’aria è fondamentale, sia per il processo produttivo stesso che per la qualità del prodotto finale.

È facile comprendere ciò se si analizzano i precedenti esempi relativi al settore alimentare, farmaceutico ma anche tutto quel che può riguardare la produzione di prodotti e materiali cosiddetti “sensibili”.

Da questo punto di vista Atlas Copco può essere considerata come un pioniere in questo settore, dunque tra le primissime realtà che hanno deciso di sviluppare una tecnologia che fosse completamente oil-free, con tutti i vantaggi che seguono per le aziende. Anche per questo motivo oggi sono tanti a preferire direttamente i ricambi Atlas Copco, per mantenere sempre alta la qualità.

I compressori industriali moderni hanno inoltre il grande vantaggio di poter essere semplicemente installati a terra, il che è una grande comodità considerando anche il minimo ingombro che apportano ai locali. Inoltre anche la ventola è poco rumorosa e questo, unito alla silenziosità del motore, è molto importante perché consente ai dipendenti di poter lavorare senza fastidiosi rumori di sottofondo e dunque lasciandoli liberi di potersi dedicare interamente e concentrare a fondo nel proprio lavoro.

Il risparmio energetico

Non bisogna sottovalutare infine la possibilità di risparmiare energia grazie alla tecnologia di azionamento del compressore a velocità variabile: è possibile infatti ottenere un concreto risparmio in termini di energia e di conseguenza anche una migliore salvaguardia dell’ambiente. Si tratta di soluzioni che rendono molto più facile il lavoro di tutti i giorni, che consentono di migliorare la velocità e la qualità della produzione, così da raggiungere una migliore competitività sul mercato.

eCommerce manager, le caratteristiche di una nuova figura professionale (e richiestissima)

Lo abbiamo riscontrato tutti per esperienze diretta: negli ultimi mesi, a partire dalle limitazioni imposte dalla pandemia, abbiamo iniziato a utilizzare molto di più i canali eCommerce per i nostri acquisti. E il trend, che riguarda tutte le fasce della popolazione, non mostra segni di rallentamento, anzi: stando alle stime di Idealo in Italia, solo nei primi sei mesi del 2021, 5 italiani su 6 concludono in media almeno un acquisto online una volta al mese. Un dato dell’eCommerce B2C in crescita del 5% rispetto a quello registrato nel 2020, che già aveva visto un balzo in avanti del 3,4% per un valore complessivo di 32,4 miliardi di euro. Ovviamente pmi, aziende e brand, anche quelli più piccoli, non sono state a guardare e hanno avviato processi di digitalizzazione sempre più rapidi per stare dietro alle nuove esigenze dei consumatori. Con una simile, forte tendenza in atto, non sorprende che sia iniziata la “caccia” all’esperto dei sistemi di vendita digitali. Questo trend, che non sembra arrestarsi, si sta traducendo in una domanda sempre maggiore da parte del mercato del lavoro della figura dell’eCommerce Manager, oggi tra le più richieste. Su Linkedin ad esempio solo a luglio 2021 si sono registrate oltre 1.000 offerte di lavoro in Italia per eCommerce Manager.

Un ruolo multisfaccettato

“Si tratta di un marketer” dice Marco D’Oria, direttore dell’Accademia del Marketing Digitale Cama ha da poco attivato un percorso formativo proprio su questo ruolo- caratterizzato da una formazione a T, verticale su un settore, ma anche con una visione a 360 gradi su più aree d’azione interne di un’azienda. È una figura nuovissima, figlia di questo processo di digitalizzazione in atto sempre più rapido, molto richiesta quanto ancora difficile da trovare data l’assenza di corsi universitari strutturati appositamente. Aspetto che del resto riguarda moltissime delle figure digital, oggi sempre più ricercate dalle aziende, e per le quali non sempre esiste un percorso universitario ad hoc capace di preparare al meglio i futuri professionisti alle sfide del mercato”. Secondo Marco D’Oria, è un ruolo che deve necessariamente saper coniugare i rudimenti del marketing con una determinata attitudine al project management e al coordinamento dei diversi team. L’eCommerce Manager infatti supervisiona non solo il corretto funzionamento della piattaforma e-commerce ma anche di tutti gli aspetti corollari ad esso: dalla strategia di comunicazione a quella legata alla vendita, dalla logistica e gestione delle spedizioni e lo stoccaggio della merce fino al customer service e quindi tutto il processo di comunicazione con il cliente sia prima che dopo la vendita. “L’eCommerce Manager è un ruolo complesso e sfaccettato, non si tratta infatti di una figura addetta all’analisi e al monitoraggio dei dati, quanto di un vero project manager che si trova spesso a coordinare anche team differenti”.

Grandi possibilità di carriera

“L’eCommerce è ormai letteralmente esploso” ha spiegato ancora D’Oria “e con esso stanno cambiando le strategie e le priorità delle aziende, la richiesta di figure digital sempre più specializzate in questo settore non può quindi che aumentare nei mesi a venire. Si tratta di un ambito in cui giovani professionisti, se ben preparati e formati, possono sicuramente ambire a costruirsi una carriera rapida e solida, esplorando al contempo le infinite opportunità presenti all’interno del mondo digital”.

Cambiano le regole nel mondo della ricerca di lavoro e del personale

Le regole cambiano anche per chi è alla ricerca di un nuovo lavoro. Se fino a qualche anno fa il curriculum vitae era di fatto l’unico strumento in mano ai selezionatori per poter ottenere una descrizione preliminare delle competenze di un candidato, oggi social network come LinkedIn offrono un’interessante, e alternativa, fonte di informazioni. E ancora, se i colloqui da remoto tra candidato e selezionatore erano una rarità oggi, e soprattutto dallo scoppio della pandemia in poi, sono diventati la prassi. Ma non sono solo questi i cambiamenti avvenuti nel mondo della ricerca di lavoro o di personale. A mutare è anche il modo con cui i selezionatori analizzano i curricula.

Meno attenzione all’esperienza più alle skills

L’attenzione dei selezionatori ora è inferiore agli anni di esperienza del candidato, a fronte di un’attenzione superiore dedicata alle capacità e alle skills. Questo, spiega Carola Adami, co-fondatrice della società italiana di head hunting Adami & Associati, è una delle conseguenze dell’allungarsi delle carriere professionali nelle nuove generazioni.
“Chi è entrato nel mondo del lavoro in questi anni ha davanti a sé un lunghissimo periodo di lavoro, decisamente più ampio ed esteso rispetto a quello che hanno conosciuto i rispettivi genitori e nonni – spiega l’head hunter -. Il fatto di posticipare sempre più in avanti l’età pensionabile ha anche altri effetti importanti sui meccanismi di selezione”.

I “buchi” di carriera non devono più essere nascosti nei cv

Si pensi ad esempio ai buchi di carriera. “Un career coach, fino a qualche tempo fa, avrebbe consigliato a qualsiasi professionista di ridurre al minimo le pause di carriera, ovvero i mesi ‘vuoti’ tra un’occupazione e l’altra – sottolinea Adami -; ogni buco nel curriculum vitae poteva infatti essere visto come una mancanza da parte del candidato alla ricerca di un nuovo lavoro”.
Ma oggi le cose iniziano a essere differenti. “Di fronte a una carriera lavorativa della durata di 40 o 50 anni è più che normale, se non perfino talvolta consigliabile, ritagliarsi pause di qualche settimana, o anche di alcuni mesi – continua Adami -. E queste pause non devono più essere nascoste nei curriculum vitae: l’importante è piuttosto essere in grado di spiegare al selezionatore cosa è stato fatto durante quel periodo tra un lavoro e l’altro”.

Ritagliarsi alcune pause lavorative può essere premiante

Con la situazione lavorativa odierna si potrebbero guadagnare punti sugli altri candidati proprio a causa di una o più pause di carriera particolarmente significative.
“In un mondo professionale in cui è normale lavorare a lungo e cambiare un numero importante di aziende nel corso della carriera può essere premiante ritagliarsi alcune pause per dedicarsi alle proprie passioni, ripensare i propri obiettivi – precisa Adami -. Il nostro consiglio non è quello di nascondere queste pause, ma anzi di metterle in evidenza, spiegando come questi ‘buchi’ hanno permesso di accrescere le proprie competenze”.

Come saranno le vacanze degli italiani nell’estate 2021?

Se il 67% degli italiani nei prossimi mesi andrà in vacanza l’85% rimarrà in Italia, e una quota importante prenoterà all’ultimo momento, poco prima di partire (43%). Rimane comunque un 23% che probabilmente quest’anno non andrà in vacanza. Tra le motivazioni, soprattutto la paura per il rischio di contagio (43%), ma tra le ragioni indirettamente collegate alla pandemia, emerge la motivazione economica: il 32% non andrà in vacanza per non doverne affrontare i costi, soprattutto nella fascia d’età 50-64 anni, dove chi è frenato dai motivi economici sale al 43%. Si tratta di alcune evidenze emerse dalla ricerca condotta da BVA Doxa sulla propensione a viaggiare nel 2021.

Bisogno di vacanza, soprattutto al mare

Il 47% degli italiani dichiara di avere bisogno di una vacanza ancora più che in passato, soprattutto a causa delle conseguenze, fisiche e psicologiche, della pandemia. Ad ammetterlo sono soprattutto le donne (50%) e i giovani tra i 25 e i 44 anni (54%). Ma nel pianificare le proprie vacanze, il 29% cercherà di prendere in considerazione mete e periodi meno frequentati, il 21% prediligerà le mete più vicine a casa, e il 20% terrà conto della minore disponibilità economica.

Alcune preferenze però rimangono stabili. Decisamente chiara è la preferenza per le località di mare (74%), anche se il 15% sceglierà una vacanza itinerante, il 13% visiterà una città d’arte e il 10% si recherà in piccoli borghi.

Le ferie si organizzano online

Emerge il digital come strumento a cui affidarsi per la ricerca di informazioni e per l’organizzazione della vacanza: a oggi, il 40% degli italiani cerca località o informazioni su siti o blog di organizzazioni o strutture, soprattutto i più giovani. Quasi a pari merito la quota di chi legge recensioni online di altri turisti (39%) o che si affidano ai consigli di parenti o amici (35%). Una quota minore, ma comunque significativa, si affida invece ad articoli o riviste a tema viaggio e vacanze che capita di leggere (19%), soprattutto i Boomers.

Scegliere l’Italia per sostenere la ripresa

Tra gli italiani che quest’estate si sposteranno per andare in vacanza l’85% dichiara che resterà in Italia, a supporto del fatto che il contesto pandemico è un forte driver d’influenza nella scelta della tipologia di vacanza. Se infatti per il 26% viaggiare in Italia è una consuetudine consolidata già prima della pandemia, il 53% lo fa per sostenere l’economia italiana, o perché crede che sia un’opportunità per conoscere il nostro Paese. E ancora, il 36% ammette che rimanere in Italia è un modo per fare una vacanza più semplice e rilassante rispetto ad andare all’estero, tanto che il 33% si sente più sicuro a rimanere entro i nostri confini a causa della situazione instabile. Solo il 9% vive il fatto di rimanere in Italia come “una costrizione”, una quota che però sale tra i giovanissimi (19%), evidentemente più spinti dalla voglia di recarsi all’estero.